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Servizio Obbligatorio del Lavoro - Alcuni mesi tra parentesi

Autore : 
PESNEL Louis
Racconto raccolto da Etienne Marie-Orléach
Edizione critica, presentazione e note di Etienne Marie-Orléach

Nato nel 1922, Louis Pesnel è studente a Bayeux quando scoppia il conflitto. All’arrivo dei tedeschi in Normandia, nel 1940, raggiunge la famiglia nel Cotentin, a Montfarville, dove si dedica alle due attività familiari, la pesca in mare e il lavoro dei campi. L’autore ci consegna qui una testimonianza divisa in due parti, che corrispondono ai due grandi periodi della sua esistenza durante la Seconda Guerra Mondiale. Il primo capitolo è il risultato di un’indagine svolta nel 1995 sul Servizio Obbligatorio del Lavoro (in francese STO, Service du Travail Obligatoire). Istituito da una legge del febbraio 1943, questo servizio mira a rispondere alle nuove esigenze tedesche relative all’invio di mano d’opera nel territorio del Reich. In conformità a tale legge, che impone ai francesi (di sesso maschile, nati negli anni 1920-1922) un servizio di lavoro di due anni in Germania, Louis Pesnel lascia la Normandia nel marzo 1943 per raggiungere un campo di lavoro nella città di Wilhelmshaven, importante porto della Bassa Sassonia. Il questionario, riprendendo le grandi tappe della vita del civile precettato in Germania, permette di evidenziare le condizioni di partenza, la vita quotidiana dei lavoratori in terra straniera, le relazioni con i tedeschi, fino al suo ritorno in Normandia nel dicembre 1943, in seguito all’ottenimento di una licenza. Decidendo di non tornare in Germania, Louis Pesnel apre una nuova pagina della sua storia: l’ex precettato diventa allora un renitente. Questa vita «tra parentesi» del renitente è da lui ricostruita nel 1998. Nascosto in un primo tempo nelle fattorie del Bessin, Louis Pesnel raggiunge Montfarville e il Cotentin per vivervi le «settimane febbrili» dello sbarco e dell’arrivo delle truppe Alleate.

QUESTIONARIO SERVIZIO OBBLIGATORIO DEL LAVORO

I Situazione prima della partenza

Situazione familiare:

Padre pescatore, gendarme in pensione, reduce della guerra ‘14-‘18 e richiamato nel ’39-’40 su un dragamine a Dunkerque, congedato prima della Disfatta a causa dell’età.

Madre che si occupa di un ettaro di terra coltivata a ortaggi con l’aiuto della nonna paterna. Due sorelle, una più grande ed una più piccola. Nessuna attività sindacale, politica o religiosa.

Situazione personale:

Età: vent’anni. Celibe.

Situazione professionale:

Iscritto matricola n° 2423 nell’ufficio circondariale marittimo di Cherbourg, imbarcato col padre sul peschereccio «Saint Louis» di Barfleur (pesca costiera), e lavoratore a mezza giornata nei campi con la madre.

Luogo di residenza nel 1939-1940:

Con i genitori, a Montfarville, nella Manche. In precedenza a Asnelles nel Calvados.

NB: Fino a metà del giugno 1940, ero allievo interno al Corso complementare «Letot» a Bayeux, dove preparavo il concorso di ammissione all’École de Maistrance di Brest 1 Scuola della Marina Nazionale che, come l’Accademia Navale di Livorno, forma ufficiali e sottufficiali [NdT]., concorso al quale non mi sono potuto presentare a causa dell’arrivo dei tedeschi.

II Condizioni della partenza

La propaganda:

Eccetto la radio e qualche raro manifesto sul cosiddetto «cambio»2Prima dell’istituzione del Servizio Obbligatorio del Lavoro, Pierre Laval aveva inventato il sistema detto «del cambio». Questo prevedeva, dal giugno 1942 e allo scopo di accrescere il numero delle partenze volontarie verso la Germania, l’invio di operai in cambio del ritorno in Francia di prigionieri di guerra. Il fallimento di questa misura spingerà il governo francese ad adottarne delle altre., la propaganda era inesistente nella mia zona, in Val-de-Saire. D’altronde, ero troppo occupato per leggere il giornale.

In compenso, uno dei tre giovani collaborazionisti dei dintorni ha tentato di reclutarmi per l’impresa Todt3Impresa creata da Fritz Todt per grandi opere di interesse pubblico, in particolare in Normandia il sistema di difesa detto il Muro dell’Atlantico e la costruzione di piattaforme di lancio di «armi di rappresaglia» di tipo V1 (cfr. a tal proposito, in questo stesso racconto, la nota n° 29). In una direttiva di guerra, la n° 40 del 23 marzo 1942, Hitler ordinava la creazione di una linea difensiva, «Atlantikwall», che andasse dalla Norvegia ai Pirenei francesi seguendo le coste dell’Atlantico. Secondo Hitler, tale linea di fortificazioni, di vario tipo ma soprattutto in cemento armato, doveva essere ultimata entro la fine dell’anno (poi entro il 1° maggio 1943, ma sarà rafforzata dal generale Rommel ancora nel 1944). Mentre gli inglesi e gli spagnoli si limitavano a tradurre alla lettera il nome di tale progetto, «El Muro Atlántico», «The Atlantic Wall», gli italiani – lanciati in pieno dal fascismo in una politica linguistica antieuropeistica e xenofoba, volta deliberatamente all’autogratificazione culturale – scelsero una traduzione non letterale, «Il Vallo Atlantico». Costituendo una presa di posizione ideologica, tale scelta era fortemente simbolica: alludeva alla grande Storia Romana e al possente «Vallo di Adriano» (lat. Vallum Aelium), fortificazione in pietra che quest’imperatore aveva fatto costruire a partire dal 122 d.C. in Britannia, per impedire alle popolazioni scozzesi dell’epoca, le tribù dei Pitti, di compiere incursioni lungo la frontiera settentrionale dell’Impero Romano. Se la parola «vallo» è, prima del fascismo, un «palancato», uno «steccato» costruito genericamente in tempi di guerra (cfr. Dizionario Fanfani 1855, ristampa 1905), oppure un semplice steccato o la sponda rialzata d’un fosso, con tanto di steccato, tipica dei Romani (Dizionario Tommaseo 1905, ristampa 1963), dopo il fascismo, la parola stessa «vallo» suona come un termine arcaizzante, letterario, se non poetico (oggi nel linguaggio corrente è quindi un sostantivo inusitato) e come termine tecnico rinvia soltanto alla storia romana o, per l’appunto, al Vallo Atlantico (cfr. Dizionario Devoto-Oli 1971; Grande Dizionario Garzanti, 1987, ristampa 1993). Il Vallo Atlantico è perciò ai nostri occhi un fossile linguistico del fascismo che l’Italia repubblicana dovrebbe rimuovere, come ha rimosso negli anni ’70 le leggi fasciste a difesa della stirpe italica. Ecco perché, con una scelta europeista che privilegia semplicità e chiarezza, chiameremo sempre in traduzione italiana il suddetto «Atlantikwall» con l’espressione letterale «Muro dell’Atlantico» [NdT].. Mi sono rifiutato di diventare lavoratore volontario a Cherbourg, cosa che i miei genitori avrebbero forse preferito, e così non ho evitato di ritrovarmi nella Germania bombardata.

Il censimento e la convocazione:

Nel mio caso, si trattava di una precettazione il cui obiettivo erano i giovani marinai del Cotentin: fu dunque l’ufficio marittimo, grazie alla matricola, che servì da intermediario.

1° marzo 1943: Su convocazione del rappresentante di Barfleur, ci siamo presentati all’ufficio circondariale marittimo di Cherbourg dove siamo stati informati della nostra prossima partenza per la Germania.

17 marzo 1943: Ricezione, tramite l’ufficio marittimo, di un ordine datato 15 marzo ed emanato dalla Feldkommandantur 722 di Saint-Lô, firmato Gebhardt e non controfirmato dalla Prefettura, che mi intimava di presentarmi il 18 marzo all’ufficio di collocamento tedesco di Cherbourg.

NB: I casi sono due: o l’ufficio circondariale marittimo si era reso colpevole di collaborazionismo passivo, o la stessa Prefettura della Manche gli aveva scaricato in modo ipocrita questo compito ingrato.

18 marzo 1943: Ci presentiamo in gruppo (i pescatori di Barfleur) all’ufficio di collocamento tedesco di Cherbourg, dove ognuno di noi riceve un foglio di via.

19 marzo 1943: All’Esattoria di Quettehou, ognuno riscuote un’indennità di equipaggiamento di mille franchi.

NB: Per beneficiare di questa indennità – assolutamente necessaria – abbiamo dovuto, il giorno prima, firmare un documento che non modificava in nulla la precettazione di cui eravamo vittime: in effetti eravamo stati scelti, per andare in Germania, dalla Commissione franco-tedesca «istituita in applicazione della legge del 16 febbraio 1943 sul servizio obbligatorio del lavoro».

Osservazione importante: Nella nostra zona, e anche nel resto del Cotentin, nessun pescatore se l’è svignata 4Sui 1889 renitenti della Manche identificati, soltanto 25 appartengono alla categoria dei marinai. Cfr. M. BOIVIN, Les Manchois dans la tourmente de la Seconde Guerre mondiale: 1939-1945, Tome 3, L’Occupation: l’ordre allemand, le régime de Vichy et la collaboration, Marigny, Eurocibles, 2004, p. 314. . Il motivo è che eravamo i primi a «inaugurare» il Servizio Obbligatorio, con il consenso, che ci parve allora evidente, della nostra amministrazione francese. All’epoca, non ci fu proposta nessuna «scappatoia». E per quanto riguarda i partigiani, rimasero muti.

La visita medica:

Si tenne l’11 marzo 1943 nei locali del comune di Quettehou.

Ne ho un ricordo impreciso. Eravamo molto poco numerosi. Non c’erano medici tedeschi. Tutto ciò somigliava proprio ad una visita di leva, ma senza buffonate.

La partenza:

Il lunedì 22 marzo 1943, la mattina presto, ci siamo ritrovati alla stazione di Cherbourg accompagnati o meno dai parenti stretti. I tedeschi controllavano la stazione e il binario, dove solo i civili precettati erano ammessi dietro presentazione del foglio di via.

Vista l’ora mattutina, nessuna manifestazione organizzata. Tuttavia, i precettati nei vagoni e i parenti dall’altra parte delle transenne non nascondevano l’irritazione di essere stati separati prima del previsto; si levarono grida di protesta. L’atmosfera era tesa e triste. La solidarietà regnava tra noi, proprio tra noi che ci aspettavamo giorni difficili.

III Il viaggio

22 marzo: Arrivati a Parigi alle ore 10:50, siamo stati portati nella caserma della Pépinière: alloggio, controlli vari, distribuzione di scarpe con suole di legno.

23 marzo: Partenza intorno a mezzogiorno, in direzione di Aix-La-Chapelle, vi arriviamo la sera. Alloggio lontano dalla stazione.

24 marzo: Raggiungiamo Hannover dove, in un luogo coperto molto vasto, ci viene attribuita, a seconda della destinazione, una coccarda di diverso colore. È lì che sono stato separato dai miei compagni di Barfleur e messo in un altro gruppo di marinai del Cotentin diretto a Wilhelmshaven invece di Bremerhaven, secondo le voci che circolavano...

25 marzo: Da Hannover, raggiungiamo Brema, poi Oldenburg dove passiamo la notte dopo aver mandato giù una bevanda calda a base di cicoria.

26 marzo: Arrivo a Wilhelmshaven, fine di un viaggio la cui meta ci era sconosciuta al momento della partenza.

Poi la sistemazione in un campo di lavoratori in cui saremo gli unici del servizio obbligatorio, controllo e schedatura. Siamo stati ricevuti, ma non accolti.

NB: Le condizioni di viaggio furono normali per quanto riguarda il materiale rotabile; e non abbiamo sofferto il freddo. Per l’igiene invece era diverso: c’erano pochi luoghi con acqua disponibile e, in certe stazioni, le latrine collettive. A volte l’alloggio era sommario e ci è anche capitato di dormire direttamente sul pavimento di legno di una mensa ferroviaria.

Ma furono le fatiche ripetute ad ogni sosta importante a causa delle valigie da trasportare – il rovescio della medaglia della generosità familiare – che minarono maggiormente il nostro morale. Così, come avevamo fatto da Parigi alla frontiera ad ogni fermata di stazione, abbiamo cantato ancora la Marsigliese arrivando a Aix-la-Chapelle; però, in questa città, i dolori muscolari e l’affanno ci resero muti in meno di un chilometro di trasporto bagagli senza una sosta.

IV La vita in Germania

Il lavoro e la vita quotidiana:

Dal 26 marzo 1943, il mio domicilio provvisorio sarà: Reichsbahnlager n° 1 Peterstraße Wilhelmshaven. Con un giovane francese di Etrépagny (Eure), condivido un piccolo locale senza riscaldamento di 3,20 metri x 1,80 e arredato con un tavolo traballante, due sgabelli, un armadio guardaroba e letti a castello di legno con pagliericci. Gli altri pescatori sono alloggiati tutti insieme in una camerata della stessa baracca: vengono da Fermanville, Réville, Saint-Marcouf-les-Gougins, Ravenoville, Saint-Germain-des-Vaux...

Il nostro campo ospitava solo operai delle ferrovie: circa 120 ferrovieri olandesi in uniforme di velluto a coste, una decina di belgi e italiani, 8 francesi a contratto e il nostro gruppo di 12 pescatori del servizio obbligatorio vestiti con camiciotti da lavoro di tela grezza e pantaloni abbinati.

Non recintato sul lato della strada, il campo era composto da tre edifici provvisori: tra la nostra baracca, che ne era un’estensione, e l’edificio dell’amministrazione dove alloggiava il Lagerführer5 Parola che in tedesco indica il capo del campo [NdT ]., c’era una baracca di dimensioni molto grandi – nella quale fummo tutti trasferiti il 26 settembre del 1943: vi faceva meno freddo, ma era infestata dalle cimici – che conprendeva i servizi igienici e le cucine e anche quattro o cinque camerate di 40 posti con letti a castello. C’era anche un rifugio interrato – per i casi d’urgenza – che avrebbe potuto proteggere soltanto dalle schegge, e una vasca rettangolare riempita d’acqua. Il tutto situato al limite nord-ovest della città e a circa venti minuti dalla stazione di Wilhelmshaven.

I dintorni presentavano un aspetto vario: quartiere di villette a est, caserme a ovest, campi a nord e, a sud, terre incolte con officine provvisorie.

Il lavoro per la Reichsbahn6Ferrovie dello Stato tedesche. cominciò fin dalla mattina del 27 marzo. Sotto la guida di un caposquadra con berretto a tre stelle, ex combattente in divisa e irascibile, fummo, in quanto operai, iniziati subito sul posto al duro lavoro del ferroviere: posa e manutenzione dei binari con, in più, delle corvées di trasporto di rotaie e traversine, anche di rosticcio, di materiale edile o di metalli di recupero. La nostra squadra, forte di una sessantina di uomini, doveva assicurare la manutenzione della linea su circa quindici chilometri, stazione compresa.

Lo stipendio mensile variava in funzione delle ore di lavoro. Per i primi cinque mesi, e in marchi: 106,54 ad aprile; 132,10 a maggio; 128,18 a giugno; 128,37 a luglio; 120,64 ad agosto7Michel Bovin afferma che lo stipendio mensile dei civili precettati della Manche era compreso tra i 100 e i 200 marchi per una giornata di lavoro che oscillava tra le dieci e le dodici ore. Michel Bovin, op. cit., p. 243.. Non era abbastanza per inviare denaro in Francia.

Tutte le sere al campo veniva servito un pasto con la zuppa; la domenica, il pasto era servito, a scelta, a mezzogiorno o la sera. Quando lavoravamo nei pressi della stazione, la mensa dei ferrovieri tedeschi era accessibile a mezzogiorno, altrimenti preparavamo una gamella da riscaldare o un pasto freddo. Eravamo ben nutriti.

Se, contrariamente a molti lavoratori del servizio obbligatorio, non abbiamo mai sofferto la fame, è che, come molti ferrovieri olandesi dei quali eravamo in qualche modo gli ausiliari, ricevevamo le stesse tessere alimentari dei tedeschi addetti ai lavori pesanti, compresi i supplementi per particolari ricorrenze festive o per un bombardamento. Fu questa la nostra grande fortuna.

NB: I miei compagni di Barfleur che lavoravano a Wesermünde (Bremerhaven) in un’industria conserviera di pesce, soffrirono di malnutrizione: uno di loro, una volta tornato in Francia, morì per questo nel 1945.

Le cure mediche a volte lasciavano a desiderare. Vittima di un forte mal di gola che mi obbligò a smettere di lavorare dal 22 al 29 aprile 1943, la domenica 24 dovetti – ancora febbricitante – recarmi dal medico per non avere a che fare con la polizia: si sbarazzò di me con un collutorio e dovetti insistere molto per ottenere alcuni giorni di malattia.

Nello stesso tempo, il mio compagno di baracca – non essendo coperto dal vaccino – era ricoverato per difterite: fu curato bene. Durante il mio soggiorno, non ci fu visita medica di controllo; ma raramente eravamo malati8Michel Bovin ha ritrovato 91 atti di morte di mobilitati nei registri anagrafici dei comuni della Manche. Lo storico nota che «il 42,5% dei decessi sono dovuti a una malattia (tubercolosi, appendicite, difterite, meningite)» (op. cit., p. 243). Curate male, queste malattie a volte benigne diventano in effetti fatali. Inoltre i bombardamenti causarono in Germania il 26,2% dei morti nei precettati provenienti dalla Manche..

Era la mutua della Reichsbahn a Oldenburg ad assicurare l’assistenza sociale e sanitaria. In seguito al problema del mal di gola, ricevetti molto rapidamente quindici marchi come risarcimento della perdita di stipendio, per cinque giorni di assenza effettiva.

Gli allarmi erano frequenti di giorno e di notte. Quando giungevano durante le ore di lavoro, l’ordine d’interruzione veniva dato dal caposquadra, anche per un semplice preallarme. In caso di allarme molto importante, dopo aver già messo in ordine per sicurezza il cantiere, ci dirigevamo verso il rifugio più vicino; perlomeno le cose funzionavano così nel settore della stazione che era quello più esposto. Insieme agli olandesi e ad altri stranieri, avevamo accesso ai grandi rifugi dopo i tedeschi e gli italiani.

NB: Conosciuta per il suo porto militare, la città di Wilhelmshaven disponeva di rifugi eccellenti, contrariamente ad altre più popolate, come Amburgo, Hannover o Aix-la-Chapelle.

Per poter incontrare le donne del servizio obbligatorio, sarebbe stato necessario che esistessero. Almeno a quell’epoca, questa sottocategoria operaia non era rappresentata a Wilhelmshaven. Forse, cercando bene, si sarebbero potute trovare qui o là delle francesi reclutate con un contratto volontario: questo non ci interessava. D’altronde eravamo sempre troppo stanchi per andare a sprecare il nostro tempo libero con le «donnine allegre», giacché dovevamo occuparci, oltre che delle cure igieniche, di lavare e rammendare i vestiti, delle lettere alla famiglia e della preparazione dei pranzi al sacco.

Non vi era propaganda rivolta ai precettati del servizio obbligatorio o agli altri francesi del campo della Reichsbahn. Ciò era forse dovuto alla personalità del Capo che si mostrava nei nostri confronti uomo di grande tolleranza. Durante l’estate del 1943, ci capitò di assistere a degli spettacoli di varietà organizzati in altri campi di lavoro: i discorsi non furono più numerosi dei volantini e degli opuscoli distribuiti.

Tuttavia, all’inizio di ottobre del 1943, la mensa fu addobbata di bandiere naziste, dalla parte del palco, per una «seduta informativa», nella prospettiva di un eventuale reclutamento immediato nelle Waffen SS. Vi furono molti discorsi, birra servita ai tavoli, e un dibattito, senza il minimo risultato! Era evidente che l’obiettivo di tale operazione erano gli olandesi poiché non c’erano traduzioni in francese.

Di fatto non si parlava mai di politica nel campo. La fiducia era reciproca tra i ferrovieri olandesi e i pescatori del servizio obbligatorio: era invece più moderata tra noi e i francesi con contratto volontario; ed era inesistente con i belgi che ci sembravano troppo vicini ai tedeschi.

NB: Sul posto di lavoro, gli olandesi non esitavano a intervenire in nostro favore quando ci vedevano in difficoltà; al contrario dei belgi fiamminghi che facevano la spia quando si presentava loro l’occasione.

I tedeschi:

Da quello che ho potuto verificare, non ci furono vere e proprie repressioni contro i francesi del servizio obbligatorio, a parte l’eccessiva severità di alcuni individui: fra cui il nostro primo indistruttibile caposquadra Trumpf che non sopportava nessuna pausa, e che giunse persino ad impedirci, non soltanto di parlare, ma anche di cantare e di fischiare mentre lavoravamo. Diventato la sua pecora nera, dovetti sopportare, per settimane e settimane, insulti e gestacci; nel frattempo, i miei compagni si trasformavano in schiavi. Finii in quarantena. In isolamento per un mese a una cinquantina di metri dalla squadra.

I tedeschi non facevano nessuna differenza tra gli operai francesi in funzione del loro statuto. I francesi che avevano un contratto non godevano da questo punto di vista di alcun privilegio. Uno di loro, membro della squadra di Trumpf, che si era avventurato nella zona portuale vietata, fu sorpreso mentre provava ad entrare in contatto con un gruppo di «forzati», uno dei quali gli aveva rivolto la parola in francese. Arrestato immediatamente, fu condotto alla prigione più vicina, interrogato e picchiato; poi fu gettato in una cella in cui passò una notte da incubo; un detenuto morì accanto a lui, e il corridoio rimbombava ogni tanto di passi e di grida.

Dopo quattro settimane di lavoro forzato in riva al mare, questo «volontario» ritornò da noi zoppicante, ferito al tallone destro da una scheggia di granata della contraerea: non avendo avuto accesso ai rifugi, non aveva potuto fare altro che sdraiarsi a pancia in giù sulla sabbia. Inutile insistere sulla sua amarezza…

Non vi era nulla di sorprendente nel fatto che fosse sanzionata qualsiasi infrazione alla regola, ma l’ignoranza era spesso la causa della colpa commessa. Così, avendo trascurato di sollecitare un lasciapassare per far visita ai miei compagni di Barfleur inviati a Wesermünde (Bremerhaven), fui rimandato indietro a Blexen, respinto sulla riva sinistra del fiume Weser. Sulla via del ritorno, fui fermato a Rodenkirchen, perquisito e interrogato, poi ricondotto in uno speciale compartimento a Wilhelmshaven, scortato da un tipo molto sospettoso della polizia ferroviaria. Dopo un controllo effettuato vicino al nostro campo dalla polizia della stazione, fui prontamente rilasciato.

NB: Questo incidente, avvenuto il 13 giugno 1943, mi rese più guardingo. Munito questa volta di un’autorizzazione in piena regola, rividi i miei compagni di Barfleur per ventiquattro ore l’8 e il 9 agosto 1943 9Fino all’inizio del 1944, siccome non c’erano limiti per l’invio della posta, i precettati mandavano con una certa regolarità i loro pacchi in Francia..

Il 3 dicembre 1943 ci rendemmo davvero conto di quanto la nostra condizione fosse invidiabile, paragonata a quella di altre categorie di lavoratori stranieri.

Da sette settimane avevamo perso senza rimpianti quel vecchio nazista del nostro caposquadra ed eravamo occupati più a ovest, nell’area di Sande, agli ordini di un civile, quarantenne, che ci lasciava respirare un po’ di più.

Quel giorno ci proponevano di rimpiazzare, tra il passaggio di due treni, tutto un raccordo con relativi scambi, ma questo superava le forze della nostra squadra. Così insieme a noi mandarono – per il trasbordo di un pesantissimo insieme di pezzi prefabbricati – un gruppo di oltre sessanta lavoratori dei territori dell’Est contrassegnati dal marchio Ost.10 Nel 1943 fu attuato dai nazisti il Generalplan Ost (Ost in tedesco significa semplicemente Est) che consisteva in un progetto generale di colonizzazione tedesca di alcune fertili zone agricole polacche deportando e sterminando col lavoro forzato le popolazioni polacche, ebree e ucraine originarie di queste stesse terre [ NdT]. e controllati da alcuni tedeschi.

Dall’inizio dell’operazione, la brutalità degli ordini, le minacce di bastonate con i manici dei picconi, la paura che traspariva dai volti di quelli che furono i nostri compagni per una sola giornata, ci impressionarono a tal punto che d’istinto reagimmo con un atteggiamento ostile verso le guardie che allora si calmarono un po’. Per noi, olandesi e francesi, era chiaro che quegli operai dell’Est venivano maltrattati un giorno dopo l’altro, e che accettavano il loro destino come una fatalità.

Una volta partito il gruppo dei rinforzi e completato il lavoro, manifestammo la nostra indignazione al nuovo caposquadra, che ci parve, anche lui, scosso. Ci fece capire che non poteva intervenire e che ne era dispiaciuto...

I contatti esterni:

Ci è sembrato che gli abitanti di Wilhelmshaven nutrissero una sorda ostilità verso gli stranieri, ostilità provocata o mantenuta da manifesti tipo «taci! il nemico ti ascolta!». Forse era semplicemente indifferenza.

Tuttavia, per caso, ogni tanto, ci arrivava un segnale favorevole. Come il gesto di una tedesca che, restando anonima, mi fece recapitare un pane – e anche a due dei miei compagni – il 17 luglio 1943. Oppure, fatto ugualmente insolito, su un binario della stazione, l’incontro con un civile tedesco che, dopo aver raccontato il suo passato d’insegnante madrelingua all’Università di Bordeaux negli anni ‘20, teneva a dire che amava la Francia e i francesi. Avendo saputo da lui che lavorava alla direzione generale delle Dogane, gli avevo parlato del saccheggio dei pacchi inviatici dai nostri familiari ad opera dei controllori e mi aveva promesso il suo aiuto in caso di recidiva. Mi rivolsi a lui una sola volta, dopodiché i «saccheggiatori» non fecero più gli zelanti.

I segni di evidente ostilità erano altrettanto rari: sassi lanciati da una passerella sulla nostra squadra da una banda di ragazzini; o la collera di un ex combattente del ‘14-‘18 che voleva farcela pagare perché in Francia con lui erano stati duri durante la sua prigionia. O ancora la commerciante che, obbligata ad accettare le mie tessere alimentari, mi aveva proposto un po’ di frutta marcia, con gran divertimento dei clienti...

In via generale, i tedeschi non si interessavano a noi, e noi, vista la barriera della lingua, cercavamo ancor meno di stabilire un contatto con loro. Fu così che nessuno del nostro gruppo del servizio obbligatorio ebbe mai l’occasione di entrare in un’abitazione.

I bombardamenti dovevano sicuramente incidere in qualche modo sul morale della popolazione ma, per quest’ultima, si trattava – nel 1943 – più del proseguimento degli attacchi aerei che della loro intensificazione: l’atteggiamento della gente nei nostri confronti non aveva motivo di evolvere.

Il 3 settembre 1939 ci fu la prima incursione aerea – il giorno stesso della dichiarazione di guerra – ed era stata seguita da molte altre, col passare del tempo, data l’importanza di Wilhemshaven nel dispositivo tedesco della guerra sottomarina11Cantiere navale e base portuale degli U-Boot (sottomarini), Wilhelmshaven è uno dei punti nevralgici della marina militare del Reich.. Finita la guerra, più di centomila bombe, tra le quali circa 90.000 ordigni incendiari, erano cadute dal cielo: il 17% sugli impianti portuali, l’83% sulla città.

Quando arrivammo, a fine marzo, le macerie erano già molto numerose. I danni non fecero che aumentare con l’attacco notturno del 26 luglio 1943 che colpì in modo più diretto il porto militare e, soprattutto, il bombardamento al fosforo del 3 novembre 1943, realizzato in pieno pomeriggio, il quale portò incendio e distruzione nella maggior parte della città. Questi due attacchi importanti erano l’opera delle formazioni aeree americane. Altri attacchi avevano avuto luogo: il 21 maggio di giorno, l’11 giugno di notte.

Dopo la nostra partenza in dicembre, gli attacchi aerei dovevano riprendere ancor più intensamente, RAF e US-Air Force si dividevano il lavoro. L’ultimo grande bombardamento fu realizzato il 30 marzo 1945 dall’aviazione americana, ossia cinque mesi dopo il «colpo di grazia» dato dai britannici il 15 ottobre 1944 (cfr. Rolf Uphoff, «Wilhelmshaven im Bombenkrieg», 1992, Holzberg Vertag, Oldenburg). Secondo l’autore citato, la popolazione, rassicurata dalla solidità dei rifugi, non cedette al panico ed ebbe da piangere solo, se così si può dire, meno di 500 morti.

A volte ci accadeva di avvicinarci a dei «russi» nei binari morti o nel reparto «merci» della stazione di Wilhelmshaven.

Nella zona dei binari morti: delle donne addette alle pulizie dei convogli dell’espresso Wilhelmshaven-Wiesbaden o di altri treni passeggeri. Queste donne, piuttosto giovani e sorridenti, erano strettamente sorvegliate da soldatesse tedesche con la divisa della Reichsbahn. Visto che i gabinetti della stazione erano loro proibiti in qualunque caso – per misure igieniche! – tali operaie non avevano altra soluzione che utilizzare quelli dei vagoni...

Nella zona merci: dei prigionieri di guerra impiegati a caricare o a scaricare i vagoni. Questi uomini, in apparenza ben nutriti e vispi, avevano un morale alto. In seguito a una loro domanda, espressa con gesti e mimica, non era raro che noi attaccassimo un mucchio di traversine o di sabbia anziché un altro, affinché avessero il tempo di spostare con discrezione le loro riserve di «patate».

Nel 1943, i prigionieri francesi – dei quali incrociavamo ogni tanto delle piccole colonne – ci facevano buona impressione; anche se non erano liberi, avevano l’aria fiera. In certi casi si consideravano essi stessi dei privilegiati.

A titolo informativo, segnalo la situazione penosa e ridicola dei prigionieri italiani dopo l’estromissione di Mussolini. Nel settembre 1943, mentre mi trovavo sul binario della stazione di Mariensiel che era adiacente a un piccolo campo, ho visto dei soldati tedeschi costringere i prigionieri italiani ad esercizi fisici di tipo punitivo in un cortile fangoso, e questo, sotto lo sguardo di altri soldati italiani che aspettavano il treno dalla parte giusta del filo spinato: loro, erano sempre alleati dei tedeschi e avevano il compito di diffondere nebbia artificiale antibombardamento.

Tra tutti i prigionieri di guerra, i più disgraziati erano senza dubbio gli iugoslavi: li vedevamo passare vestiti con abiti blu aviazione, il viso emaciato e gli occhi infossati, con lo sguardo fisso a terra, indifferenti a quello che succedeva. Le loro condizioni non dovevano differire molto da quelle dei deportati...

E per l’appunto, degli uomini con il pigiama a righe, ne avevamo scorti in pieno giorno – ma da lontano – fin dal 27 marzo 1943, l’indomani del nostro arrivo, e i giorni seguenti, periodo di sgombero delle macerie provocate dai grandi bombardamenti del 22 marzo 1943. Alle nostre domande, era stato risposto che si trattava di «forzati», di criminali di diritto comune. È solo nel 1945 che ho potuto far combaciare quelle persone con le vittime dei campi nazisti.

NB: Nel novembre 1993, sono tornato a Wilhelmshaven dove ho comprato un libro pubblicato nel 1992 sui bombardamenti subiti dalla città. Come inserto, vi era allegata una veduta aerea a mosaico composta a partire da foto, prese dall’aviazione di ricognizione americana, il 6 novembre 1944, da un’altitudine di 6000 metri.

Ed è soltanto ora, riesaminando questa veduta aerea, che trovo la prova dell’esistenza a Wilhelmshaven di un «KZ12 Konzentrationslager: campo di concentramento.» il quale, in linea d’aria, non era a più di un chilometro di distanza dal Reichsbahnlager.

Situato evidentemente in zona vietata, il campo di concentramento aveva un numero sufficiente di baracche per ospitare circa tremila persone in uno spazio molto ristretto. Non si finisce mai di scoprire l’orrore da noi sfiorato, e quindi ignorato in assoluta buona fede...

NB: Si trattava infatti di uno dei principali «Kommando» esterni al Campo di Neuengamme 13 La parola tedesca Kommando indica quindi in questo caso un campo di lavoro separato dal campo centrale, più o meno lontano da esso ma che ne dipende sul piano amministrativo [NdT]..

Per tornare al campo di lavoro dei ferrovieri, non vi era a nostra disposizione nessuna struttura per attività sportive. Niente radio e ancor meno un fonografo o un’orchestra... Quanto al cinema, avremmo potuto provare ad andarci in città la domenica ma, oltre al fatto che non avevamo voglia di essere trattati male dai tedeschi, i film non erano sottotitolati in francese[;] e non vi era neppure una biblioteca. Negli otto mesi e più trascorsi lì, non consultai che due libri – e soltanto per una settimana, una grammatica inglese e un vocabolario dello stesso livello, prestatemi in cambio di una lezione di francese da un giovane tedesco in tirocinio.

Nella baracca, se avevamo tempo libero la domenica, giocavamo a carte o a dama. Un «russo bianco» naturalizzato francese mi insegnò a giocare a scacchi. All’aperto, durante le pause e quando era bel tempo, un olandese appassionato di arti marziali ci iniziava alle tecniche del judo e dell’aikido che, tutto sommato, era meno brutale e più efficace della solita lotta libera tanto amata dai marinai.

Ho fatto lo sforzo di imparare il tedesco con l’aiuto di un piccolo dizionario tascabile «Langenscheidt», che è ancora oggi ristampato. Pur avendo memorizzato centinaia di parole, inciampavo sfortunamente sulla sintassi e mi mancava anche la pratica, in assenza di interlocutori. Data la situazione, a partire dal luglio 1943 riuscivo tuttavia a farmi capire abbastanza bene nel mio tedesco «maccheronico» da diventare il portavoce dei miei compagni pescatori. Ciò era importante nella misura in cui riuscivamo così a liberarci in parte della tutela poco sincera del nostro interprete belga...

La corrispondenza era libera, giacché la censura veniva applicata per caso come un po’ ovunque all’epoca. Anche se non tutti i pacchi arrivavano a destinazione a causa dei bombardamenti sulla Ruhr, ne ricevevamo comunque a seconda delle possibilità familiari. Nel 1943, il traffico postale non era ancora troppo disturbato in modo serio.

Nella parte con il sottotitolo «I tedeschi», ho affrontato – per quanto riguarda la repressione – la questione degli stranieri. Posso qui ricordare ciò che ho accennato al capitolo IV (sottotitolo «Il lavoro e la vita quotidiana»): i rapporti erano cordiali con gli olandesi, abbastanza buoni con i due italiani e mediocri con i belgi.

Vi aggiungo un aneddoto che riguarda i militari italiani accantonati in una caserma dei dintorni e il cui compito consisteva, in caso di allarme confermato, nel diffondere la nebbia artificiale sull’agglomerato. La sera dell’8 settembre 194314Data dell’annuncio dell’armistizio firmato dall’Italia e dagli angloamericani., dei soldati italiani discretamente brilli vennero in modo chiassoso ad invitarci, con una bottiglia di Chianti in mano, a brindare alla fine della «loro» guerra, iniziativa ancor più inopportuna, visto che non ci rivolgevano mai la parola. L’indomani, dopo essere ritornati sotto il controllo dei tedeschi, abbacchiati, non ci conoscevano più. Il riavvicinamento franco-italiano non era durato che una sera...

Gli occupanti del Reichsbahnlager erano tutti nella stessa barca, sia per quanto riguarda i pagliericci pieni di cimici che per il vitto. Era così anche per le licenze verso le quali il regime era più liberale che altrove: diritto al congedo ogni tre mesi nel paese d’origine per gli operai sposati, ogni sei per gli operai celibi. Questa era la regola nella primavera del 1943; ma era troppo bello per durare.

La resistenza:

Non vi era nel nostro campo di lavoro una resistenza organizzata. E io non sono mai stato contattato da un estraneo qualsiasi per partecipare a una qualunque attività antinazista.

Gli olandesi mi sono sempre parsi ostili ai tedeschi anche se rispettavano, dal punto di vista professionale, gli ordini di lavoro ricevuti. Il loro spirito di resistenza si manifestò in occasione della riunione di propaganda per la Waffen-SS; tutte le domande che posero ai reclutatori furono abili obiezioni destinate a suscitare un rifiuto categorico.

Nel nostro gruppo del servizio obbligatorio, nessuno era felice di essere in Germania, ma non potevamo andare molto più in là di una resistenza passiva.

Senza nemmeno cercare di imparare il tedesco, tanto era forte la speranza di un prossimo ritorno, i miei compagni avevano come preoccupazione maggiore quella di non farsi notare dal nostro «sbraitante capo», da qui un certo assopimento del loro spirito ribelle. Da parte mia, tirando la corda dell’incompetenza senza raggiungere il punto in cui si spezza, avevo ottenuto l’opportunità non trascurabile di essere designato per primo ogni volta che un artigiano addetto alla stazione aveva bisogno di uno o più manovali. Ognuno si difendeva a modo suo.

Sorvegliati come eravamo in maniera stretta, non autorizzati ad accedere alla zona portuaria e assegnati alla manutenzione dei binari, per noi non poteva esserci questione di resistenza attiva. Essendo il lavoro di squadra controllato senza sosta, che cosa avremmo potuto sabotare?

Irrilevanti erano le piccole malefatte delle quali, per esempio, io stesso mi rendevo colpevole correndo un rischio minimo: tegole rotte per finta goffagine durante operazioni di manutenzione, oppure, quando i binari attraversavano la bassa campagna ed ero in quarantena, escluso dalla squadra, ganasce gettate nel canale di drenaggio, con bulloni, cuscinetti e tirafondi. Era una sorta di protesta silenziosa, senza una portata reale poiché il peggio era già previsto: rotaie di scorta lungo la massicciata, così come, vicino ad ogni ponticello metallico, materiale necessario alla sua rapida ricostruzione.

L’unica volta in cui, accompagnato da un collega, entrai in uno spaccio di bibite, fu per non venir meno alla stupida scommessa, che io stesso avevo lanciato, di dire «crepa Hitler!» a mo’ di saluto. Per fortuna, la confusione acustica fece il dovuto lavoro. La cretinata non fu ripetuta.

E se, il mercoledì 14 luglio 1943, io fui il solo francese del Reichsbahnlager a non presentarsi al lavoro a causa della festa nazionale, devo riconoscere che il capo del campo non mi denunciò alla polizia anche se tuttavia avrebbe dovuto. Fui appena rimproverato: il che fece riflettere i miei compagni pescatori. In verità, eravamo dei ragazzi normali, isolati e mal organizzati.

V Il ritorno

Fin dal nostro arrivo in territorio frisone, il nostro grande obiettivo fu quello di effettuare il viaggio nella direzione opposta, reazione comune a tutti gli espatriati non volontari.

Nutriti a sufficienza, e abbastanza rassicurati per quanto riguardava la nostra sicurezza, ci focalizzavamo sul ritorno in Francia. All’inizio però senza troppo nervosismo, poiché ci avevano lasciato sperare una partenza dopo sei mesi di presenza per i celibi, dopo tre mesi soltanto per quelli con famiglia a carico. Ci bastava pensare alla lunga cattività già patita dai prigionieri di guerra per sopportare il nostro destino con pazienza.

A partire da giugno, l’atmosfera tuttavia si era un bel po’ guastata. Il 30 maggio, avevamo saputo che le iniziative intraprese dalla Marina Mercantile (ministero della tutela dell’iscrizione marittima) presso le autorità tedesche si erano rivelate vane: in effetti la risposta era che non vi erano «più esenzioni per la nostra categoria». Ciò significava anche – al contrario – che vi erano state di sicuro esenzioni al momento della partenza, opportunità che l’ufficio circondariale marittimo di Cherbourg non aveva saputo cogliere o che aveva molto semplicemente ignorato, e ora era troppo tardi!

Segno precursore di un malessere più grave, la licenza dei pescatori sposati fu rinviata dal 24 giugno al 15 luglio, nel quadro di un avvertimento generale dovuto all’aumento del numero di operai che «dimenticavano» di tornare in Germania alla fine del loro congedo in Francia. In quell’occasione, eravamo stati unanimi nel chiedere agli amici in partenza di non tener in nessun conto il ricatto esercitato dai tedeschi, il quale consisteva nel far dipendere le future partenze dal ritorno di chi aveva avuto il permesso15A partire dal settembre 1943, le autorità tedesche riducono il numero delle licenze. La ragione di questo calo è il non rientro in Germania di una parte dei beneficiari di tali permessi. Lo studio sui civili mobilitati della Manche mostra che, dei 758 mobilitati partiti in licenza, il 67,7% non è tornato in Germania. Siccome la suddetta pressione psicologica non era sufficiente, sarebbe stata rimpiazzata all’inizio di settembre, ossia meno di due settimane prima della partenza prevista, da un avviso di soppressione puro e semplice dei congedi. La misura era tanto più inquietante per il fatto che riguardava in particolare i francesi.

Posto davanti alla necessità di agire, fu verso la metà di ottobre che presi l’iniziativa di non dare tregua al Servizio del personale della stazione di Wilhelmshaven senza passare per l’intermediazione dell’interprete belga e senza informare di ciò il capo del nostro campo.

Ebbi la fortuna di incappare in un capufficio piuttosto conciliante dal quale ottenni un primo appuntamento, con autorizzazione di staccare dal lavoro per arrivare in tempo, il che impressionò molto il nostro caposquadra. E potei allora, in un tedesco rudimentale, esporgli la nostra situazione: «Pescatori del circondario di Cherbourg – regione dal clima temperato – siamo stati costretti a venire qui. L’inverno si avvicina e noi non abbiamo a disposizione altri abiti da lavoro che i nostri camiciotti di tela, saremo quindi improduttivi appena comincia a far freddo. Chiediamo di ricevere un abbigliamento come quello dei ferrovieri olandesi».

Dopo avermi ascoltato con pazienza, l’interlocutore mi fissò un altro colloquio, poi un altro, poi un altro ancora, in presenza di persone ogni volta diverse e con grado gerarchico sempre più alto. Fu durante questi incontri – dal clima a volte teso – che una soluzione si fece largo, non senza essere stata favorita con discrezione dalla figlia del capufficio, che era anche la sua segretaria. In mancanza di rifornimenti disponibili, i «responsabili» decisero, in via del tutto eccezionale, di lasciarci partire in Francia per andare a prendere vestiti invernali. Eravamo all’inizio di novembre e avevo ottenuto in poche settimane, in modo inaspettato, la promessa di una partenza prima di metà dicembre! Le tante ore passate a raccogliere una a una le parole nel dizionario «Langenscheidt» non erano state vane.

A questo punto, l’interprete belga riprese la questione in mano in nome del capo del campo e si occupò delle formalità: estrazione a sorte per designare chi partiva, preparazione delle liste di cose da fare e da comprare, ecc. Lui riuscì persino a ottenere tre licenze supplementari proponendo in cambio, per ogni congedo concesso, cinquecento grammi di cioccolato: accordo dal quale anche lui traeva beneficio.

Grazie a tutto questo, l’11 dicembre 1943 eravamo otto «pescatori-ferrovieri» a partire per la Francia, lasciando soltanto due dei nostri a Wilhelmshaven.

NB: I due garanti furono rimandati a casa un mese dopo, nel gennaio 1944, con uno degli ultimi treni di lavoratori del servizio obbligatorio in licenza: non essendo tornato nessuno in Germania, erano diventati dei testimoni ingombranti. Loro stessi sarebbero presto spariti dalla circolazione.

Alla fine del gennaio 1944, non vi era dunque più un solo marinaio-pescatore del Servizio Obbligatorio a Reichsbahnlager, i cui operai restanti – penso in particolare ai compagni olandesi – dovevano essere liberati solo il 6 maggio 1945 all’arrivo di una divisione blindata polacca, posta sotto l’alto comando britannico.

Partiti la mattina dell’11 dicembre, riuscivamo a raggiungere Parigi il 12 dicembre 1943 in serata, dopo un viaggio interrotto da continue fermate, tra cui:

– Oldenburg, dove lasciammo il normale treno locale; e dove ricevemmo un viatico di 160 Reichsmark16 Si tratta dei marchi tedeschi allora in uso [NdT]. prima di salire su un treno speciale nato per iniziativa della Direzione «Weser-Ems» dell’Arbeitsfront17In Germania, nel maggio 1933, i sindacati sono vietati e al loro posto è istituito il Fronte tedesco del lavoro (Deutsche Arbeitsfront, DAF)..

– Da qualche parte nella Ruhr (tra Bottrop e Oberhausen?) dove, a causa di un allarme importante, fummo bloccati nel bel mezzo di una stazione di smistamento circondata da impianti industriali. In caso di bombardamento, saremmo stati proprio in prima fila.

– Venlo, alla frontiera olandese, per un controllo minuzioso. Tutti gli operai erano scesi in banchina con i loro bagagli, quelli che dichiaravano di possedere dei documenti di identità scritti o stampati – possesso che violava le istruzioni ricevute – dovevano raggrupparsi prima di essere rinviati nel loro campo d’origine. Dopo un ultimo avvertimento, che stavolta minacciava di rappresaglie i trasgressori del campo, i lavoratori in licenza passavano in una stanzina stretta e all’uscita i poliziotti sceglievano quelli che sarebbero stati perquisiti. Intanto, alcuni militari accompagnati dai cani ispezionavano il treno da una estremità all’altra del convoglio: tanto il tetto e il carrello18 Il carrello è l’insieme delle ruote e della scocca di un treno: elemento indipendente del veicolo, esso si monta sulla parte inferiore della cassa [NdT]. quanto gli scompartimenti; niente e nessuno poteva sfuggir loro.

– Châlons-sur-Marne infine, dove, dopo un ultimo controllo dei documenti di viaggio, ci consegnarono 3200 franchi in cambio dei 160 marchi. Ci consegnarono anche delle tessere alimentari per un periodo di quindici giorni.

E, il 13 dicembre 1943 al crepuscolo, ritrovai la mia famiglia a Montfarville. Ero in buona salute.

Nelle giornate successive, potei apprezzare il cambiamento avvenuto in quei nove mesi nello stato d’animo e nell’atteggiamento stesso della popolazione. Ora che tutte le categorie socioprofessionali potevano subire la precettazione del Servizio Obbligatorio, una reale volontà di portare aiuto aveva rimpiazzato l’imbarazzo inquieto del mese di marzo. Tale volontà era del resto più forte nel mio paesino che a Barfleur, piccolo porto peschereccio che aveva maggiormente sofferto della partenza dei «civili mobilitati» all’inizio della primavera.

NB: I miei compagni pescatori di Barfleur, dai quali la sorte mi aveva separato il 25 marzo 1943 a Hannover, non ritornarono in Francia che dopo essere stati liberati dagli Alleati nel 1945.

Dieci giorni dopo il mio ritorno, alla vigilia di Natale, lasciai Montfarville – con una carta di identità falsa in tasca – per raggiungere Le Tronquay, nel Calvados. Da lavoratore in licenza a lavoratore in fuga, per così dire, divenni di fatto «renitente» a partire dal 28 dicembre 1943 (titolare del documento N° 36-14 del 20 febbraio 1958).

Per la decisione N° 5 presa il 5 luglio 1957 dall’ufficio provinciale degli Ex Combattenti e Vittime di Guerra del Calvados19In francese ACVG: Anciens Combattants et Victimes de Guerre., venivo riconosciuto «persona obbligata al lavoro in territorio nemico» per il periodo che va dal 22 marzo al 27 dicembre 1943.

NB: Il mio vecchio Libretto del lavoro, il quale era gestito e aggiornato dall’Iscrizione Marittima, precisa, in data 22 marzo 1943 e nella colonna «Postille diverse»: «fatto oggetto d’uno sbarco di ufficio in quanto civile mobilitato per andare in Germania».

Nota aggiuntiva al QUESTIONARIO DEL SERVIZIO OBBLIGATORIO DEL LAVORO

Il riserbo dei tedeschi:

Ritorno per prima cosa sull’atteggiamento dei tedeschi nei nostri confronti: niente affatto ostile, semmai distante e sospettoso nella maggior parte dei casi. Ci trovavamo, a dire il vero, in una città che dipendeva quasi esclusivamente dall’attività militare, per di più con una forte influenza del partito nazionalsocialista dei lavoratori tedeschi20NSDAP, ovvero National sozialistische Deutsche Arbeiter ppartei, partito diretto da Hitler. sulla popolazione mediante la difesa passiva. Ognuno era o pensava di essere sorvegliato.

E quando qualcuno ci aiutava, lo faceva con grande discrezione: fu così per la generosa sconosciuta, come per quella silenziosa panettiera che mi diede un pane gratuitamente e senza tessera alimentare mentre ero solo nel suo negozio, all’ora di chiusura.

Alla mensa della stazione, dove eravamo accettati a pranzo, eravamo trattati bene quanto i clienti tedeschi impiegati nella ferrovia; e questo malgrado i nostri abiti da lavoro molto consumati.

Eppure una volta, un anziano, seduto nella rimessa di una fattoria della Reichsbahn in corso di ricostruzione, uscì dal suo riserbo. Dopo aver verificato che vi erano accanto a lui solo dei francesi, accennò il saluto nazista, poi disse: «Hitler!» con un tono disgustato e sputò per terra. Avevo dapprima creduto ad una semplice reazione contro la guerra. Ora penso che il gesto esprimesse la nausea da lui provata dinanzi alla disumanità dell’impresa hitleriana. La fattoria, infatti, era vicinissima al «KZ», dal quale un boschetto soltanto la separava, e lui, a differenza di noi, non poteva ignorarlo...

Un caposquadra astioso:

Si chiamava Trumpf e aveva partecipato alla Prima Guerra mondiale. Ne ho già parlato, ma due aneddoti preciseranno il suo profilo psicologico.

Un giorno che lavoravamo nella zona merci della stazione, una colonna di prigionieri francesi capitò che passasse lì vicino, e uno di noi ricobbe tra quelli un suo cugino del Cotentin, e lo chiamò. Immediatamente, il soldato tedesco che guidava la colonna la fece fermare per permettere l’incontro. Ma non aveva tenuto conto di Trumpf il quale si interpose minaccioso tra l’operaio e il prigioniero, ammonendo pure il soldato della scorta che rimise subito la truppa in marcia.

Un altro giorno, furioso nel vedere il cantiere disturbato di nuovo da un allarme, rifiutò in modo ostentato di recarsi come tutti facevano nel rifugio e si piazzò su un muretto con la sua borsa del pranzo al sacco, denunciando così quello che ai suoi occhi era un eccesso di precauzione.

Un capo del campo benevolo:

Al contrario, tengo ad insistere sulla natura conciliante del nostro Lagerführer, del quale ho tuttavia dimenticato il nome. Era un quarantenne tranquillo che, se occorreva, sapeva non prendere severi provvedimenti e che a volte ci traeva persino d’impiccio. Qualche esempio basterà a ben descriverlo: il regolamento vietava espressamente qualsiasi iscrizione sui tramezzi delle baracche, tanto all’interno che all’esterno, e una multa di 5 marchi era prevista per ogni minima infrazione.

Questo non impedì, a me e al mio compagno Pinchedez, di decorare la nostra camera con alcune matite colorate, esponendoci così ad una pesante sanzione pecuniaria. L’infrazione divenne pubblica solo la domenica 1 agosto 1943 quando, davanti a qualche curioso tedesco, terminai l’opera disegnando, sul pannello esterno della porta, un convolvolo gigante pieno di farfalle, non senza aver prima di tutto scritto «ASILO»21 Traducendo la parola francese asile con il termine italiano meno polisemico asilo perdiamo qui il senso forse più ironico del testo: l’idea del rifugio anche per gli alienati mentali, l’asile come manicomio [NdT]. sopra lo stipite.

Contro ogni aspettativa, non ci fu nessuna sanzione. Il capo del campo venne a esaminare la trasgressiva decorazione e ci ordinò di non toccarla più. Dopodiché gli accadde a più riprese di entrare da noi senza bussare per far apprezzare ai suoi amici l’originalità di quelli che occupavano l’ASILO...

Un’altra volta, durante un gioco un po’ pericoloso dei pescatori del servizio obbligatorio intorno al rifugio di emergenza, il condotto di aerazione in terracotta fu sfortunatamente rotto di netto a metà altezza a causa dell’impatto con un mattoncino. Una delle cuoche fu testimone della scena e non poteva fare altro che informarne il capo. Ebbene, il condotto di aerazione fu rimpiazzato senza che noi fossimo accusati.

Una mattina in cui non ero andato al lavoro per mancanza di suole alle scarpe, il Lagerführer ebbe perfino la generosità di darmi un paio delle sue scarpe buone per farmi evitare noie più gravi: nemmeno quindici giorni dopo, le scarpe avute in soccorso avevano reso l’anima sulla massicciata.

E, il giorno in cui mi consegnò la licenza tanto attesa, mi fece capire di non essere così ingenuo da credere alla mia promessa di ritornare, lanciandomi un molto dubitativo «Junge, Junge!» (Ma va’, vecchio mio!), che significava in quel caso: «Io non ci credo proprio».

I prigionieri «in libera uscita»:

Il mio compagno Pinchedez, che aveva l’abitudine di andare in città, una sera ritornò accompagnato da due francesi vestiti con giacche da civili e con pantaloni da militari. Prigionieri e membri di un commando di vetrai stazionato nei paraggi, «uscivano» varie volte a settimana col permesso delle sentinelle, frequentavano i bar e ritornavano «alla base» in tempo dovuto. Un tale statuto privilegiato si spiegava con la creazione nel loro minicampo di una specie di cooperativa: i prigionieri fabbricavano dei cofanetti intarsiati, il materiale da lavoro era stato fornito dai loro guardiani, i guadagni erano divisi equamente. La vendita era realizzata sotto banco (il banco del prigioniero…), poiché i vetrai avevano, per forza di cose, numerosi contatti con la popolazione.

Alla ricerca del lavoratore medio del servizio obbligatorio:

Cercare di definire l’operaio medio del servizio obbligatorio sarebbe illusorio quanto voler rappresentare la Francia in una sola cartolina. Gli uni, dei quali faccio parte, hanno avuto fortuna, gli altri no, e la statistica non potrebbe ristabilire l’equilibrio.

Le testimonianze raccolte nell’ambito dell’inchiesta dovrebbero, se fossero abbastanza numerose, riflettere situazioni molto varie, vissute in funzione di percorsi aleatori. Se fossero raggruppate, poi analizzate in previsione di una sintesi, si giungerebbe inevitabilmente a un nuovo tradimento della verità.

Seconda nota aggiuntiva alla mia risposta al QUESTIONARIO DEL SERVIZIO OBBLIGATORIO DEL LAVORO

Il lavoro:

«Aushilfsarbeiter» – alla lettera «lavoratore ausiliario» –, facevo parte, con i miei compagni pescatori, di una manodopera ausiliaria senza qualifica.

Specializzati pian piano nella posa e nella manutenzione dei binari, ci bastava conoscere l’uso di alcuni utensili insoliti: la forca per riempire o per sgomberare la massicciata, il piccone per calzare bene le traversine metalliche o di legno, la grande chiave a T per stringere o allentare le caviglie a vite, la pinza per mettere o togliere le rotaie, il cric per sollevare l’insieme rotaie-traversine, l’ariete per allineare il binario... La disciplina di gruppo era necessaria alla nostra sicurezza quando si trattava di caricare un carro ferroviario piatto sui binari deponendovi le rotaie di peso.

A seconda dei giorni, ci capitava di sgombrare una via, scavare una trincea per rimpiazzare una canalizzazione deteriorata, smontare una baracca, scaricare un carro ferroviario carico di mattoni o di tegole, spalare la polvere di carbone, caricare con difficoltà dei rottami di recupero. Quando la fortuna era dalla nostra parte, eravamo chiamati ad aiutare dei muratori o degli operai copritetto, perfino dei telefonisti per piantare loro i pali...

Tutte queste attività rovinavano pantaloni e camiciotti di tela, i nostri abiti da lavoro; e ancora di più le nostre scarpe che ogni mese esigevano una costosa e completa risolatura.

Il vitto:

Spesso il lavoro era faticoso, ma eravamo nutriti secondo i bisogni e ho già insistito sulla fortuna che abbiamo avuto a tal proposito.

Già in Francia, come pescatori, ricevevamo le tessere alimentari riservate agli operai addetti ai lavori pesanti, e in quanto ferrovieri della Reichsbahn, a Wilhelmshaven, fu lo stesso.

Non era un vantaggio da poco, se si tiene conto della quantità di alimenti attribuitaci ogni settimana, dopo detrazione delle tessere relative a materie grasse, carne, pasta e uova trattenute per i pasti serviti alla mensa del campo: 2500 g di pane di segale, 500 g di pancarré, 250 g di zucchero, 200 g di marmellata o di surrogato di miele, 100 g di formaggio, 400 g di salame, 90 g di surrogato di caffè, frutta o latte scremato secondo la stagione.

NB: 1. Inoltre, distribuiti senza bisogno di tessera, 3 bicchierini di alcol e 30 sigarette.

2. A Pasqua, in supplemento: un pacchetto di biscotti, un barattolo di verdure miste, due uova sode; una bottiglietta di acquavite di ginepro e dei pralinati.

3. Per sostenere il morale della popolazione, veniva accordato un supplemento alimentare in caso di bombardamento: 300 g di pane di segale, 30 g di burro o margarina, 50 g di salame.

A questo si aggiungevano i viveri contenuti nei pacchi che ci facevano arrivare le nostre famiglie e, per quel che mi riguarda, al ritmo di due spedizioni al mese. I miei genitori si affannavano per comprare senza tessera degli alimenti non deperibili: anche se lavoravo in Germania, restavo quindi in parte a loro carico.

I rifugi:

Molto prima di arrivare alla stazione di Wilhelmshaven, ci incuriosirono dei grandi edifici a tetto conico disseminati nello spazio urbano che sembravano colossali torri medievali di difesa. Venimmo subito a sapere che si trattava di rifugi, e tra i migliori della loro specie.

Ognuna di queste torri-rifugio poteva accogliere circa seicento persone, la maggior parte sedute. Di una solidità estrema – data la loro forma e lo spessore delle pareti – esse offrivano la massima protezione. Il che non impediva alla donne e ai bambini di gridare di paura al primo frastuono delle bombe, quando i circuiti elettrici venivano disturbati dall’eco degli impatti e quando il mastodontico edificio oscillava lentamente a seconda degli ampi ondeggiamenti del sottosuolo torboso.

A parte le torri – che potevano essere almeno due dozzine nel 1943 – i rifugi più sicuri si trovavano soprattutto nei quartieri con villette ed avevano l’aspetto di imponenti case accoppiate. È in un edificio come questo che trovavamo rifugio in caso di allarme notturno, dopo averlo raggiunto nell’oscurità evitando di essere urtati dalle carrozzine spinte di corsa da madri sconvolte...

Altri vasti rifugi, più classici giacché interrati, completavano il dispositivo di protezione civile, ma correva voce che non resistessero ai siluri aerei, visto l’esempio accertato di Brema.

Quanto al rifugio di terra del Reichsbahnlager, non era altro che un ripiego usato solo per i ritardatari e i meno svegli.

La corrispondenza è utilizzabile?

Dobbiamo domandarci se i ricordi siano affidabili o se, diventati una storia che ci raccontiamo, essi non richiedano una conferma scritta.

Certamente esistono prove ufficiali, ma sono molto poco numerose quelle che possono essere presentate dagli interessati: nel mio caso personale, la convocazione e il foglio della licenza. Si dovrebbero cercare le altre pezze giustificative negli archivi delle varie amministrazioni francesi o tedesche, a meno che non siano state danneggiate o mandate al macero...

Di fronte alla penuria dei documenti, si potrebbe essere tentati di ricorrere alla corrispondenza conservata dai familiari, ma, per chi avesse a cuore l’obiettività, questo sarebbe solo un espediente, poiché le informazioni contenute nelle lettere erano in molti casi inesatte o congetturali.

Con tutta probabilità, le lettere non potevano assolutamente essere sincere poiché bisognava tener conto, da una parte, del pericolo rappresentato dalla censura di uno Stato totalitario, dall’altra e soprattutto, del rischio di allarmare inutilmente i genitori. Insistevamo, quindi, per principio, sull’aspetto neutro e rassicurante delle cose. Tuttavia, la preoccupazione maggiore, che era quella di rientrare in Francia, traspariva come un motivo conduttore nelle lettere, con a volte l’allusione a una futura clandestinità in corso di preparazione.

ALCUNI MESI TRA PARENTESI

Alcuni periodi dell’esistenza, poiché mal definiti e anarchici, sono vissuti come vacanze, belle o brutte. Quello che li caratterizza è la loro mancanza di uniformità, la loro instabilità. È proprio tale precarietà che prevale nella fase che va dal ritorno nel dicembre 1943 dal servizio obbligatorio, alla mia entrata in gendarmeria nell’ottobre 1944.

I – Soggiorno nel Calvados

Ero tornato dalla Germania solo da dieci giorni quando, il 23 dicembre 1943, lasciai Montfarville per andare nel Calvados dove dei cari amici dei miei genitori avevano, a loro rischio e pericolo, accettato di ospitarmi.

La mia licenza era ancora valida, il viaggio non poneva problemi. D’altronde non venne nessun controllo di polizia a turbare la mia quiete sul tragitto Valognes – Littry, via Bayeux, posto in cui passai la notte.

Il giorno dopo arrivai al «Titre», frazione del comune di Tronquay dove viveva la famiglia che mi avrebbe accolto. Essendo amici generosi, Charles e Marie Langlois si erano proposti di «mimetizzarmi» nella loro fattoria, piccola e isolata in mezzo ai boschetti che delimitano i campi. Li conoscevo fin dalla più giovane età, avendo passato da loro, ma a Longues-sur-Mer, le mie prime vacanze scolastiche. Dei loro tre figli, solo Simone – la più piccola – viveva con i genitori. Il figlio maggiore si era sposato a Carentan, l’altro si trovava a Châtel-Guyon, nella zona detta «libera», dove era autista del generale La Porte-du-Theil22Generale francese vicino al Maresciallo Pétain, responsabile dei cosiddetti Cantieri della Gioventù (Chantiers de la Jeunesse). Accusato di insubordinazione dalle truppe di Occupazione, viene arrestato nel suo ufficio a Châtel-Guyon il 4 gennaio 1944, poche ore dopo essere stato dimesso dal suo incarico..

Due giorni dopo, il 26 dicembre, mi recai a Balleroy dal signor Mouche – anche lui amico dei miei genitori – un gendarme che voleva avere un ruolo di rilievo nella catena di solidarietà. Si era incaricato d’inserirmi in una impresa agricola, abbastanza vicina alla sua residenza perché potesse avvisarmi in tempo in caso di ispezioni tedesche. L’appuntamento fu fissato per il venerdì 7 gennaio.

Il giorno stabilito, incontrai il signor Mouche sulla strada di un piccolo comune, La Bazoque, situato a sud-ovest di Balleroy, comune nel quale avrei dovuto trovare vitto e alloggio. Dopo aver camminato un po’, entrammo nel cortile rettangolare di una fattoria dove si allevava bestiame che aveva un aspetto agiato e rassicurante. Le brevi presentazioni e le raccomandazioni insistenti durarono solo pochi minuti: il mio amico ci teneva a tornare il più presto possibile dal suo brigadiere.

Il proprietario, il signor Ch..., era un uomo di media corporatura, tarchiato e sanguigno. Mi mise subito al lavoro dicendo che dovevo prima di tutto guadagnarmi la cena. Quando ebbi finito la preparazione delle barbabietole da foraggio destinate al bestiame, mi indicò il luogo dove avrei potuto dormire: nell’angolo libero di un grande granaio, su due «giacigli» che non dovevano essere poi così puliti, coperti da varie pellicce di pecora. «C’è posto per quattro e voi siete solo tre». In quel periodo dell’anno in effetti, l’azienda funzionava con personale ridotto e restavano solo due operai in pianta stabile: uno di origine polacca, l’altro nato in Algeria. Dei braccianti sarebbero stati assunti passato l’inverno.

Siccome disponevo di un viatico di 3000 franchi, ne parlai con il signor Ch... chiedendogli che tenesse lui la somma per maggior sicurezza. Di colpo il tizio cambiò idea, m’invitò a seguirlo in casa e domandò alla moglie di mettere una camera a mia disposizione. Un simile voltafaccia la diceva lunga sulla mentalità del mio datore di lavoro.

Non sarei rimasto molto tempo alla Bazoque, il signor Ch... era un contadino benestante, al contempo vanitoso e furbo, che si compiaceva della sua condizione. Delegato dal comune alla distribuzione di concimi e sementi, gli piaceva ripetere con presunzione che nelle sue terre si sentiva come in un principato.

Non aveva affatto torto. Protetto dai gendarmi, a causa dei clandestini che usava quando si presentava l’occasione, non temeva nulla dai tedeschi, che venivano a rifornirsi regolarmente a casa sua, dove erano ricevuti da amici.

Sopportabile a digiuno, diventava «pesante» di giorno, col passare delle ore, sotto l’influenza dell’alcol. Il suo linguaggio esprimeva allora brutalità e disprezzo. La moglie aveva palesemente paura di quel mediocre tiranno campagnolo.

Incassai una bella dose di vessazioni varie, da parte di uno zotico che sembrava tuttavia molto rispettabile la domenica, allorché, con moglie e figlia, si recava alla messa nel suo elegante tilbury.

Quando, la mattina del 12 gennaio, gli chiesi di accompagnarlo a Littry, per tornare dai miei amici, comprese che aveva proprio esagerato. Il suo tono ridivenne quasi amabile, ma il danno era fatto. Non avevo avuto il tempo di conoscere davvero gli altri due lavoratori, solo il polacco mi aveva aiutato con i suoi consigli. Ma rimpiansi la gentilezza della signora Ch... e il candore di sua figlia.

Avevo appena lasciato il mio ex padrone al mercato della miniera23 Mercato di Molay-Littry, così chiamato perché situato in prossimità di una miniera di carbon fossile [NdT]. quando incontrai il signor Mouche, sorpreso e contrariato nel vedermi lì. Dopo avergli spiegato come erano andate le cose, tornai a Tronquay dove fui accolto ancora una volta molto bene. Bisognava ricominciare tutto da capo perché dovevo trovare un altro posto dove poter passare inosservato, cosa che sembrava molto difficile. Nel frattempo, avrei svolto attività invernali: ci sono sempre rovi da eliminare, legna da segare o da spaccare, animali di cui prendersi cura.

Charles Langlois lavorava tre giorni a settimana da Armand Langlois, sindaco di Campigny, che lui chiamava «Mastro Armand». Il 24 gennaio, il mio amico mi annunciò che sarei andato con lui l’indomani a Campigny dove avrei potuto lavorare a mio agio come giardiniere. Avendo praticato l’orticoltura a Montfarville, questa soluzione mi andava benissimo.

Il 25 gennaio stavo per sistemarmi in un locale attiguo ad un grande orto circondato da muri, come ce ne sono in tutte le grandi fattorie del Bessin. Mentre aspettavo di essere ricevuto dal proprietario, arrivò un gendarme in bicicletta che ripartì dopo qualche minuto. Era un membro della gendarmeria di Bayeux; aveva appena informato il sindaco di imminenti controlli domiciliari tedeschi il cui scopo era di catturare i clandestini, ed aveva aggiunto che il giovanotto avvistato nel cortile non aveva l’aria di un operaio agricolo.

Il sindaco di Campigny era dispiaciuto ma, in quelle condizioni, non poteva portare a termine il progetto da lui fatto. In compenso, si impegnò a procurarmi delle tessere alimentari per tutto il tempo in cui sarei stato ospite dei miei amici, i Langlois.

Tornato per la seconda volta a Tronquay, non volevo creare ancora più a lungo problemi ai miei protettori. La signora Binard, futura suocera di Simone, si faceva portavoce di dicerie inquietanti: certe persone sopportavano male la presenza qua e là di alcuni imboscati, quando invece i prigionieri di guerra erano sempre in Germania a soffrire.

Dopo aver avvisato la mia famiglia per telefono, il 29 gennaio ritornai in Val-de-Saire in compagnia di «Compare Charles». Saliti in treno nella stazione di Molay-Littry, contavamo su un viaggio calmo come quello dell’andata. Tuttavia fin da Lison, constatammo che dei portabagagli erano stati controllati sulla banchina da poliziotti in borghese impegnati nella lotta contro il mercato nero.

Quando il treno si fermò a Neully-la-forêt, ultima stazione del Calvados, eravamo curiosi di sapere se vi sarebbero stati altri controlli. La nostra curiositàfu presto soddisfatta. Risalendo dall’esterno il convoglio nella direzione opposta, il capostazione attirava l’attenzione dei viaggiatori con un colpetto sul vetro dicendo: «La Gestapo è nel vagone!». Il convoglio si riavviò. Non fu un civile col cappotto di cuoio a presentarsi, ma un militare tedesco con la placca della Feldgendarmerie. Il mio compagno data la sua etànon lo interessava. È a me che si rivolse: «Documento bitte! Dove lavorate?». Per la prima volta avevo bisogno di usare la carta di identitàfalsa. Mi alzai e risposi che lavoravo vicino a Carentan, a Sainte-Mère-Église dove ero apprendista salumiere. Ero stato convincente? Il militare aveva fretta, o era un tipo molto comprensivo? Comunque fosse non aspettò che io avessi finito di estrarre i documenti da una delle tasche del giubbotto. Il «brav’uomo» aveva giàfatto dietrofront e richiuso la porta del compartimento. Ripensandoci, tiro ancora un bel sospiro di sollievo. Nella stazione di Carentan, scesero in evidente stato d’arresto, una buona dozzina di persone.

Il resto del viaggio non fu disturbato da nessun incidente. A Valognes mi aspettava la signora Leproist, una commerciante che tornava dal mercato; mi riportò a Montfarville nella sua camionetta.

II – Settimane calme

Inutile mentirsi, bisognava ammettere che il ritorno a Montfarville era la conferma di un fallimento. Il piano messo a punto dai miei genitori e dai loro amici si era rivelato fragile. Sembrava rischioso nascondersi tanto nel Calvados quanto nella Manche. Ad ogni modo, ogni clandestino metteva in pericolo le persone che lo proteggevano.

I miei genitori si erano decisi a correre il rischio, quindi sarei rimasto sotto il loro tetto vivendo sempre rinchiuso. Una delle prime azioni da me compiute fu quella di distruggere la falsa carta di identitàe avvisare la persona che me l’aveva generosamente procurata. Louis Ernest Perrault nato il 3 gennaio 1925 a Sainte-Mère-Église ridiventava Louis Marius Pesnel nato il 14 settembre 1922 a Montfarville. Il tentativo di ringiovanimento era fallito.

L’isolamento sarebbe stato del tutto relativo, perché vissuto in seno alla famiglia che m’informava sulle novitàe le dicerie locali. Per tutti quanti – o quasi – ero ripartito per la Germania al termine della licenza. Non ero più sul territorio comunale, non avevo più la tessera annonaria. Nessuno doveva vedermi.

L’inattivitàmi avrebbe pesato più del dovuto poiché, anche d’ inverno, in campagna il lavoro al chiuso è tra i più ridotti. Si finisce presto con la creazione o la riparazione degli utensili, con la preparazione delle sementi e con l’organizzazione dettagliata dei lavori da fare.

Per tutto il periodo delle brinate, le settimane sarebbero avanzate lentamente. Ma le cose sarebbero completamente cambiate al ritorno della primavera.

Niente è così debilitante quanto il negare la propria esistenza quando il sole rianima la natura. La sensazione di reclusione sembra ancor più demoralizzante quando la imponiamo a noi stessi come una sorta di autopunizione. Forse i miei genitori provavano sollievo nel sapermi accanto a loro, lontano dalle bombe che cadevano in Germania, ma li vedevo anche preoccupati per quello che poteva accadermi a casa.

Dal canto mio, avevo tutto il tempo per riflettere sull’assurditàdi alcune situazioni. Costretto a fare il servizio obbligatorio, mi ero sentito più utile nei confronti dei miei compagni di Wilhelmshaven che della Reichsbahn che mi dava lavoro. Ma non mi ero comportato da schiavo. A Montfarville, ero ridotto a nascondermi e a stare zitto. Nell’etàdell’impazienza, è penoso dover frenare i propri impulsi, sentirsi di continuo fuorigioco.

Ammazzare il tempo con le riletture e i ripassi prolungati. Seguire le notizie alla radio cercando di individuare le esagerazioni e i non detti. Cercare di prevedere... l’avanzata degli Alleati in Italia, ma la liquidazione da parte della Wehrmacht dei partigiani alla macchia nell’altopiano di Glières24Questo gruppo armato della Resistenza francese, che opera nell’Alta Savoia ed è composto da alcune centinaia di partigiani, viene attaccato alla fine del mese di marzo 1944 dalle forze tedesche. Nella battaglia, perderanno la vita un centinaio di partigiani.; gioie e dolori.

Settimane e settimane che sembrano sempre più lunghe. I miei genitori si preoccupano nel vedermi logorato dalla reclusione, giacché passo di continuo dall’eccitazione alla prostrazione. È mia madre a prendere la decisione: a inizio aprile, annuncia al vicinato che, essendo malato, sono tornato dalla Germania. Che le persone le credano o non le credano, poco importa, ognuno farà «come se così fosse»!

D’altronde, quando riappaio alla luce del sole, nessuno mi fa domande. Forse si noterà che non mi si vede mai a Barfleur o nel borgo di Montfarville, e che evito con cura di trovarmi vicino a uomini in uniforme. Nessuno ne parla. In quei tempi agitati, la curiosità non si esprimeva ad alta voce.

Mi recherò quasi ogni giorno al nostro campo chiamato «La Planque» – proprio il nome adatto: nascondiglio – ma percorrendo quasi sempre le «chasses»: strade sterrate incassate nei campi, all’epoca fiancheggiate ancora da siepi. Vi riprenderò i miei lavori abituali, da solo o in compagnia di mia madre e della mia cara nonna Daireaux, emerita camminatrice.

Non ci si annoia più. Bisogna raccogliere i cavolfiori tardivi e anche i cavoli precoci di Tourlaville. Qua bisogna vangare, là preparare la terra per la semina dopo un’aratura superficiale. Bisogna occuparsi dei bulbi delle patate e del trapianto delle insalate. I giorni si susseguono diversi con, in premio, la pace interiore. Vivo sempre al margine, ma questa volta con il cuore leggero. Ora che non sono più confinato in casa, mi sento protetto dalla natura. Dopo l’inquietudine, la serenità.

III – Settimane febbrili

Verso metà maggio, divenne chiaro che gli Alleati stavano preparando proprio l’azione di grande portata annunciata da tempo: vale a dire l’apertura di un nuovo fronte, dopo quello italiano.

Non solo eravamo informati della moltiplicazione dei raid «terroristi»25Termine utilizzato dalle autorità di Vichy per indicare i bombardamenti e gli attacchi alleati sul territorio francese. È un termine che troviamo anche su molti manifesti della propaganda. sulle città francesi con distruzione delle stazioni, insieme alla recrudescenza degli intensi bombardamenti sulla Germania, ma la macchina da guerra cessava d’ignorarci. Nella nostra tranquilla, per non dire addormentata, Val-de-Saire, il cielo si animava a poco a poco d’incursioni aeree di breve durata che tiravano sulla collina della «Pernelle», unico obiettivo militare d’importanza strategica. Le «vedove nere», caccia-bombardieri Lighting26Caccia americano a doppia fusoliera, munito di un cannone da 20 mm e di quattro mitragliatrici, che può trasportare dieci razzi. a doppia fusoliera, si assicuravano un dominio incontrastato e sganciavano i razzi sulla zona fortificata.

Distante 5 chilometri in linea d’aria da Montfarville, «La Pernelle» fu bombardata sette volte a maggio, di cui cinque solo nella seconda parte del mese. Il ritmo degli eventi accelerava sempre più e gli aerei ormai mitragliavano a terra qualsiasi tipo di convoglio. Non era più possibile dubitarlo: l’attacco era imminente.

Se il lavoro nei campi continuava, la pesca era ridotta ai minimi termini. Siccome le radio erano state depositate in comune su ordine delle truppe di occupazione, non potevamo più ascoltare la BBC e le notizie davvero credibili si facevano rare.

Ogni famiglia aveva preparato un rifugio di fortuna sperando di non doverlo mai usare. Il nostro si trovava in fondo al giardino. Per un ventina d’ore avevo scavato in un suolo molto compatto per realizzare una trincea a forma di T, asciutta e ben aerata, protetta da spessi pannelli amovibili coperti da un cumulo di terra.

Aspettavamo lo scatenarsi della tempesta. Il 2 giugno, «La Pernelle» fu ancora bombardata di notte, poi due volte in pieno giorno il sabato 3 giugno. Quel giorno, una vicina che tornava da Barfleur riferì il commento fatto da un soldato tedesco, dal macellaio, alle clienti: «Non ridete troppo, Signore! I vostri amici inglesi si preparano nelle loro navi! La settimana prossima, Barfleur Kaputt!». Gli aerei tornarono a due riprese il mattino del 5 giugno. L’atmosfera diventava elettrica.

Ci eravamo appena messi a letto, la sera del 5 giugno, quando «La Pernelle» fu attaccata. Non erano ancora le undici. Le bombe esplodevano sulla collina disseminata di razzi illuminanti. I quattro proiettori della contraerea piazzati due giorni prima a Montfarville, esploravano coi loro fasci di luce il cielo notturno, l’arsenale antiaereo suonava lo spartito a controtempo. Siccome l’obiettivo era ben circoscritto, non c’era ragione di recarsi nel rifugio.

Ancora più tardi, quella stessa notte, mio padre mi svegliò. Si sentivano sempre gli aerei, ma ronzavano ad alta quota: un rumore interminabile. E in lontananza, proprio a sud, un riflesso rossastro insolito permaneva all’orizzonte, contemporaneamente a dei boati sordi che si ripercuotevano confusamente fino a noi.

E il 6 giugno mattina, la rivelazione allo spuntar del giorno: incredibile! Dalle finestre del granaio, s’intravedeva una imponente armata di svariate navi da guerra sovrastate da palloni frenati, il mare era coperto dall’enorme convoglio che si dirigeva verso sud. Più che un convoglio, un mare di navi!

Quasi subito, dall’altra parte della casa, sbucarono rapidamente degli aerei, in gran numero e a bassa quota, con un rumore assordante: era la nostra brigata d’aerei bimotori contrassegnati da cinque strisce alternate, ciascuno con un aliante a rimorchio. Protetti dai caccia, anche loro andavano decisi verso sud.

Passavano piccoli gruppi di tedeschi, col casco camuffato dalle foglie, sconcertati di fronte a tanta incontenibile potenza. Sparare sugli aerei e sugli alianti che erano davvero a tiro, loro non ci pensarono proprio o ci pensarono troppo tardi; in effetti vi fu un solo passaggio aereo così ardito.

Quanto alle piccole batterie costiere di Barfleur, non corsero il rischio di attirare l’attenzione facendo fuoco, come al tiro al bersaglio, su un nemico dalla superiorità tanto schiacciante. Da parte loro, gli onnipresenti caccia americani che volteggiavano al di sopra di tali batterie restituirono il favore evitando di farne un bersaglio. «Gentlemen[’s] agreement» o tacito accordo? In seguito corse voce che il responsabile tedesco aveva voluto evitare la distruzione di Barfleur, come ringraziamento alla popolazione per essere venuta spontaneamente in aiuto, qualche giorno prima, a un gruppo di soldati feriti, vittime di un mitragliamento aereo.

Quel 6 giugno, avevamo acquisito una certezza: lo Sbarco era in corso a sud, tra la duna e Les Veys – futura Utah Beach. Ciò fu presto confermato. E apprendemmo con sollievo che gli Alleati avevano messo piede anche sulla costa del Calvados, tra Les Veys e la foce dell’Orne, zona che conoscevamo bene. Le notizie si diffondevano col passaparola a partire da «qualcuno che aveva una radio a galena»27 La galena è il più importante minerale del piombo (solfuro di piombo) una volta utilizzato nei ricetrasmettitori [NdT].. Da quanto ottimismo regnava tra noi, la liberazione ci sembrava vicinissima. Una sola inquietudine: le previsioni meteo poco favorevoli all’atterraggio dei veicoli anfibi sulle spiagge.

Comunque sia il 6 giugno non fu per noi «il giorno più lungo»; fu il giorno più bello. Né il giorno della liberazione vera e propria, né quello della capitolazione tedesca saranno carichi di così tante emozioni, e di gran lunga.

La mattina del 7 giugno, stavo facendo qualcosa nel granaio quando mi giunse il rumore caratteristico degli aerei che volano in formazione. Si trattava di una squadriglia di bombardieri del tipo Marauder – una dozzina circa – che giungeva dal mare e che si dirigeva verso ovest ad una quota approssimativa di 1500 metri. Li guardai soltanto per un istante, il tempo di capire che si erano appena alleggeriti dei loro pesanti proiettili.

Sebbene mi fossi subito lanciato per le scale nel tentativo di raggiungere il giardino, non ero arrivato che al primo piano al momento dell’impatto. La casa tremò per l’onda d’urto, a tal punto che una delle finestre si aprì da sola.

Vidi l’enorme quantità di terra sollevata dalle bombe ricadere al rallentatore sul paesino de L’Église prima che si dissipasse il fumo delle esplosioni. Obbiettivo del raid era la batteria dei proiettori, distante quasi 600 metri. Scoprimmo ben presto che il successo era completo e che non c’erano vittime da segnalare tra la popolazione. Il comune di Montfarville non subì altri attacchi.

Quel giorno, la «Pernelle» ricevette a più riprese la sua dose di bombe e qualche granata di marina. Ma i cannoni da 105 mm e da 170 mm non rispondevano più.

Nei giorni successivi, non accadde nulla di straordinario eccetto la presenza intermittente dell’aviazione alleata. I convogli navali non navigavano più così vicino alla costa e sembravano meno provvisti. Le notizie dal sud erano imprecise e a volte contradditorie. A 25 chilometri da noi c’era la guerra, e il nostro pezzo di terra era ritornato tranquillo. E lo sarebbe rimasto, in apparenza.

In realtà, i tedeschi progettavano già il loro ripiegamento sulla piazzaforte di Cherbourg che doveva essere difesa a qualunque costo; e si organizzavano di conseguenza. Ci sembrava del resto che il corpo di spedizione, con le spalle al mare, non riuscisse ad avanzare e che ci fosse ancora da temere un ribaltamento. Prendevamo inoltre coscienza della vastità delle distruzioni che le città normanne avevano subito.

Dopo qualche giorno di riposo forzato, i coltivatori avevano ripreso la strada dei campi. Bisognava sarchiare e scerbare le superfici coltivate a ortaggi, assicurare la fienagione nei prati. Di tanto in tanto, per meglio rendersi conto delle attività delle formiche umane, un caccia americano scendeva rombando prima di risalire a candela nel cielo azzurro. Ognuno trovava normale approfittarne come di una sorta di immunità.

Non si scorgevano quasi più i tedeschi; sembravano d’altronde ignorarci e non prendevano nessuna misura di ordine pubblico nei confronti degli abitanti, eccetto il coprifuoco. La difesa costiera restava amorfa, per pessimo comando o per attendismo. La batteria dell’esercito terrestre piazzata a nord di Barfleur, a Gattemare, nel comune di Gatteville, non utilizzò i suoi quattro cannoni da 155 mm. Non lontano da essa, la batteria navale della punta di Néville, detta «Blankensee», influenzerà ancor meno il corso degli avvenimenti.

Ma la febbre era nei nostri cuori, proprio perché nulla si muoveva dalle nostre parti. Constatavamo che gli americani esitavano ad occupare la parte costiera del Val-de-Saire prima di aver conquistato le colline che formano la spina vertebrale del Cotentin. I tedeschi contavano di appoggiarsi su di esse per realizzare la ritirata che avevano già programmato su Cherbourg, il che poteva spiegare la loro mancanza di iniziativa nella fase finale in cui la tecnica rimase, da parte loro, puramente difensiva.

Avevamo saputo che la città di Bayeux era stata liberata intatta, al contrario di altre città di minore importanza. Venivamo a sapere che gli Alleati costruivano dei pontili di un nuovo genere28Sapendo che sarà difficile impadronirsi di una città portuale in breve tempo, gli Alleati prevedono, fin dal 1942, di creare dei «porti artificiali». Questi Mulberries (nome in codice dato ai porti artificiali) sono costituiti da vecchie navi affondate e da immensi blocchi di cemento collegati tra loro da moli galleggianti; essi emergono così davanti alle spiagge di Saint-Laurent-sur-mer e Arromanches e permetteranno alle grosse imbarcazioni di scaricare il materiale. Tra il 19 e il 22 giugno, una tempesta devasta il Mulberry di Saint-Laurent e danneggia in modo grave quello di Arromanches., e che dei razzi V129 Vergeltungswaffe eins: armi di rappresaglia n° 1. Missile telecomandato nel cui primo tragitto, il 12 giugno 1944, raggiunge il sud dell’Inghilterra. Essendo vicino ai centri urbani inglesi, il Cotentin è una base privilegiata per l’insediamento delle rampe di lancio. Molte di queste rampe saranno abbondantemente bombardate e rese presto inattive. cadevano su Londra. A partire dal 16 giugno, il vento soffiò da nord-est e rinfrescò nei giorni seguenti: c’era di che nutrire forti inquietudini per il trasporto dei rinforzi.

Nella notte tra il 18 e il 19 giugno le truppe tedesche evacuano con molta discrezione la parte nord della zona di Quettehou per difendere meglio Cherbourg e l’aerodromo di Maupertus. Il 19 giugno, neanche un tedesco ormai a Barfleur o a Montfarville. Nel pomeriggio, una pattuglia motorizzata proveniente da Toqueville spunta a Barfleur, nella rue Saint-Thomas, che è abbondantemente imbandierata in onore degli americani. Gli esploratori tedeschi non credono ai loro occhi e fanno subito dietrofront, persuasi che il nemico è vicino.

Il 20 giugno, il gruppo di cavalleria americano, che ha preso Saint-Vaast e Quettehou il 19, occupa la zona restante. Da «La Bretonne» a Barfleur, siamo una buona ventina di persone di tutte le età ad esserci incamminati lungo la strada costiera D1, per andare incontro a un’avanguardia fin troppo timorosa. Troviamo quasi subito i GI’s30 Sigla di Government Issue: nome generico dato ai soldati americani [NdT]. che ringraziamo con parole e gesti. Diciamo loro che i tedeschi sono partiti da più di un giorno. Forse lo sanno, perché non mostrano nessuna sorpresa.

Sono interessati ad altro: «Cosa pensate del generale Giraud31Questo aneddoto è interessante per due motivi. In primo luogo, mostra l’interesse alleato verso l’opinione pubblica normanna e francese. La popolazione sarà interrogata su vari argomenti (i bombardamenti, i rifornimenti, in questo caso la politica) con lo scopo di sondare lo stato d’animo del momento. In secondo luogo, il riferimento al generale Giraud rivela la posizione degli Alleati. Roosevelt, giudicando de Gaulle un apprendista dittatore, si sforza di mettere in prima linea un dirigente, e trova costui nella persona di Giraud. Dopo essere stato consigliato, Giraud si decide ad incontrare de Gaulle e insieme formano il Comité français de la libération nationale il 30 maggio 1943. Molto presto però Giraud si eclissa in favore del suo omologo, prima di dimettersi dall’incarico di comandante in capo delle truppe francesi dell’Africa del Nord. Bisogna malgrado tutto notare che, al momento della domanda posta a Louis Pesnel dagli americani (il 20 giugno 1944), de Gaulle ha già allora istituito in Normandia (fin dalla visita del 14 giugno 1944) un commissariato generale della Repubblica, con a capo François Coulet. Il futuro di de Gaulle non lascia più dubbi.?» s’informa un luogotenente. Botte e risposta: gli dico che noi preferiamo il generale de Gaulle! È una replica rapida e insolente... Seduto sul semicingolato di testa, il giovane ufficiale prende nota su un taccuino. Alcuni soldati gettano chewing-gum e sigarette verso tutte le mani tese: sono sempre più numerosi quelli che arrivano. Ad ogni lato della strada, altri GI’s setacciano in modo sistematico l’argine della strada con la «padella per friggere»32 Si tratta di un metal detector per individuare probabilmente la presenza di mine sui lati della strada [NdT ]..

Siamo stati appena liberati! Un piacere da gustare, da digerire lentamente? A Montfarville come a Barfleur, l’occupazione è durata quattro anni giusti giusti.

La mattina del 21 giugno, la curiosità mi portò sulla strada provinciale D901 che, da Barfleur, si dirige decisamente verso ovest in direzione di Cherbourg. In bicicletta, superai senza difficoltà Toqueville e non incontrai nessun militare, solo alcuni civili. Se non ci fosse stato l’andirivieni aereo e l’eco dei bombardamenti multipli, avrei potuto dubitare della realtà della guerra. Soltanto nelle vicinanze di Saint-Pierre-Église si fecero sentire in modo distinto il martellamento secco dell’artiglieria leggera e i tiri singhiozzanti e indisciplinati delle armi automatiche.

Mi fermai a un chilometro dalla borgata, nel settore della Lande Michaud, vicino a un gruppo di bunker situati a nord della strada provinciale. «Hanno preso Saint-Pierre, ma combattono a Les Hauts» disse un ragazzotto, che sembrava ben informato. In effetti, ci arrivavano dei rumori di scaramucce da sud-ovest, in direzione di Théville.

Potevo ripartire tranquillo, il riflusso tedesco continuava. Quello che mi aveva sorpreso di più, durante quell’esplorazione compiuta a dovuta distanza, era il debole spessore della zona degli scontri, un semplice fronte lineare, una fascia di terreno «fluttuante» in cui gli avversari dovevano essere in contatto e in costante movimento. I tedeschi allentavano il controllo su Cherbourg, senza panico e sotto la pressione americana che non lasciava loro nessuna tregua. Si sarebbero dovuti attendere ancora sei giorni prima che fossero cadute tutte le difese del grande porto militare normanno. Circa 39.000 tedeschi appartenenti a diverse armate vi sarebbero stati fatti prigionieri.

Stavo per ripartire nella direzione opposta quando un tipo mi propose di accompagnarlo nella vicina sede fortificata, abbandonata dai crucchi33Termine dispregiativo per indicare i tedeschi.. Lì si sarebbe trovato materiale di valore da recuperare e, per questo genere di lavoro, era meglio essere in due... Il tizio intraprendente dovette cercare un altro complice.

Essendo ormai escluso qualsiasi pericolo nelle vicinanze, eravamo ansiosi per le altre zone del fronte basso-normanno, in particolare a causa del fallimento dell’operazione «Epsom» a ovest di Caen. L’esercito tedesco, molto determinato, opponeva una feroce resistenza alle forze alleate. Inoltre i danni considerevoli subiti durante la tempesta scatenatasi dal 18 al 21 giugno minacciavano l’approvvigionamento delle divisioni già sbarcate.

Ci interessavamo anche all’attività ausiliaria del porto di Barfleur, diventato per alcune settimane, insieme a Saint-Vaast-la-Hougue, un sito di forte traffico per lo sbarco delle derrate alimentari e degli equipaggiamenti militari. Le «Liberty ships», incapaci di attraccare a causa del loro tirante d’acqua34 Per tirante d’acqua si intende la distanza verticale tra la parte più bassa della chiglia e la linea di galleggiamento della nave. Quest’ultima se ha un tirante ampio si arena in porti dal fondale troppo basso [NdT]. , si arenavano in mare aperto nel bel mezzo del porto estuario. Lo scarico veniva effettuato senza indugio per mezzo di una marea di «ducks», veicoli anfibi che ricevevano dal cargo i carichi dei paranchi destinati ai camion-GMC con le sponde, in attesa vicino alle stive. Sarebbe stato difficile immaginare una tale abbondanza di merci diverse.

Ma le attività materiali imponevano ogni giorno degli obblighi specifici. Per il lavoro dei campi, giugno e luglio erano mesi in cui si sgobbava in modo mostruoso.

Distrazione regolare e molto apprezzata: una jeep del servizio stampa dell’esercito USA passava da un comune all’altro, una volta al giorno sempre alla stessa ora, per informare la popolazione a voce, una versione moderna dei nostri antichi tamburi municipali. Eravamo assetati di notizie. Dopo metà luglio, vi fu l’annuncio dell’operazione «Goodwood» a sud di Caen – un mezzo fallimento – poi quello dell’attentato contro Hitler35Il tentativo di assassinio si verifica il 20 luglio 1944, fomentato da alcuni membri della cerchia di Hitler: si conclude con un fallimento ed il Führer è solo lievemente ferito. Numerosi testimoni fanno riferimento all’evento, il che è spiegabile per due motivi: il martellamento della stampa e la speranza di una fine prossima..

Il mattino del 25 luglio, stavo lavorando alla «Planque» quando intravidi, che volavano a grande altezza nel cielo blu, delle fortezze volanti dirette verso sud in formazioni compatte e numerose. Erano centinaia di bombardieri pesanti; io ne contai più di mille. Quel giorno, 5000 tonnellate di bombe sarebbero state sganciate a ovest di Saint-Lô, su una fascia di dodici chilometri quadrati. Era l’inizio dell’operazione Cobra36Impantanati in una «guerra delle siepi», gli strateghi americani intraprendono un’operazione per aprire un varco nella linea di difesa tedesca. Questa operazione, che comincia il 25 luglio 1944, ha come nome in codice «Cobra». Prima dell’attacco, gli alleati procedono con la solita strategia del bombardamento a tappeto. che sarebbe stata determinante per il seguito della guerra.

Fin dai primi giorni di agosto, il successo dello sfondamento del fronte di Avranches faceva presagire molti combattimenti futuri. Alla fine la corazza difensiva aveva ceduto. Ma, con il tempo che passava, ci veniva voglia di partecipare, se non era giàtroppo tardi. Eravamo in molti, a Montfarville e Barfleur, a volerci arruolare nelle forze navali nazionali. A Cherbourg, dove ci presentammo negli uffici dell’arsenale, ci dissero che la Marina non aveva nessun bisogno di giovani reclute: una delusione che mi colpì profondamente.

IV – Aspettando l’avvenire

Il rifiuto categorico espresso dalla Marina aveva gettato all’improvviso molti dubbi sul mio futuro professionale. Fino a quel momento, avevo creduto – avvalendomi di una prima iscrizione nel 1940 al concorso di ammissione all’École de Maistrance – che avrei potuto, per deroga, essere autorizzato insieme ad altri a seguire i corsi a titolo eccezionale. Constatai purtroppo che le cose non stavano così. Mi restava solo da orientarmi verso un’altra strada, ma quale ?

Da quando vivevo a Montfarville avevo spesso consultato la guida «Carus» delle professioni. La guida era concepita più per presentare le formazioni per corrispondenza, finalizzate a preparare diversi concorsi amministrativi e i brevetti tecnici, che per informare il lettore sulle qualità innate o acquisite adatte all’esercizio di tale o tal’altro mestiere.

Siccome la navigazione non era più alla mia portata, e la sorte incerta dei supplenti nelle scuole elementari non mi tentava granché, avrei avuto presto da indirizzare la mia scelta verso un lavoro di impiegato statale nelle Poste, nelle Ferrovie, nel Genio civile o nella Ricostruzione, enti o istituti che, probabilmente, avrebbero offerto larghi sbocchi. Senza dimenticare l’arsenale di Cherbourg che era il primo datore di lavoro della regione.

Ma ciò supponeva che fossimo tornati alla vita normale ovunque, che lo Stato fosse stato riorganizzato, che la Francia fosse stata interamente liberata. Non eravamo ancora giunti a quel punto. Nell’agosto 1944, gli abitanti del Cotentin erano sempre isolati nella loro penisola; nessuna iniziativa era possibile, la precarietà perdurava.

Nel frattempo, il lavoro non mancava. Varie migliaia di cavoli da piantare, sarchiature da fare con la pialla nelle file dei porri, semina delle insalate, fagioli da cogliere verdi per la vendita, raccolta delle patate: ci volevano braccia e perseveranza. A settembre, ci sarebbe stato da estrarre le carote e da raccogliere ancora fagioli, cipolle e patate; poi da scerbare i cavolfiori prima di passare ad altre faccende.

Si vedeva un maggior numero di soldati americani, soprattutto uomini di colore addetti al trasporto e alla sorveglianza del materiale. I militari erano ospitati negli accampamenti di tela, i rapporti con la popolazione restavano superficiali.

Intanto, gli avvenimenti si susseguivano. Tornati in possesso della nostra radio, seguivamo lo svolgersi delle operazioni: il contrattacco tedesco su Mortain, poi il suo fallimento37 Riunite le loro forze a Rancoudray, i tedeschi lanciano una controffensiva la mattina del 7 agosto 1944 con sette divisioni, di cui quattro Panzer. Questa operazione, detta «Lüttich» («Liegi»), ha come obiettivo quello di sfondare in direzione di Avranches e dividere così in due le linee americane, le quali continuano la loro penetrazione verso la Bretagna. Approfittando dell’effetto sorpresa e della nebbia, i tedeschi riescono a riconquistare Mortain. Ma qualche ora dopo, subentrato il sole alla nebbia, i cacciabombardieri alleati entrano in azione provocando seri danni alle linee tedesche. Il tentativo di contrattacco tedesco fallisce anche grazie all’arrivo di rinforzi americani.; il galoppo americano in direzione di Le Mans, poi di Alençon e di Argentan; l’avanzata simultanea degli inglesi; lo sbarco alleato in Provenza38Attuata il 15 agosto 1944, l’operazione «Anvil», ribattezzata «Dragoon», doveva permettere agli Alleati di mettere piede sulla costa meridionale della Francia per spingersi poi verso il nord e operare una congiunzione con le truppe sbarcate in Normandia. Come in questa testimonianza, tale sbarco alleato è menzionato in altri scritti normanni, ma sempre di sfuggita.; i tedeschi scacciati dalla Normandia; le città più grandi liberate: Parigi e Marsiglia a fine agosto, Lione all’inizio di settembre.

A Barfleur, lo sbarco delle «merci diverse» era stato abbandonato nella prima quindicina di luglio. E i pescatori avevano ripreso il ritmo delle maree, muniti provvisoriamente di un salvacondotto americano che rimpiazzava l’Ausweiss tedesco.

Mio padre, che aveva ripreso anche lui la via del mare, dovette smettere di dedicarsi alla pesca. Siccome poteva essere ancora precettato, era stato appena richiamato e assegnato alla gendarmeria di Saint-Vaast-la-Hougue. Fu lui che, nell’ottobre 1944, mi annunciò che vi si reclutavano giovani ausiliari. Non tergiversai: cogliendo al volo l’occasione offertami dalla sorte, mi arruolai senza aspettare oltre.

È così che si conclude, con un rapido scorcio sulla vera vita, questo intervallo caotico vissuto da attento spettatore, questi mesi tra parentesi caratterizzati da speranza, fortuna e libertà.

  • 1. Scuola della Marina Nazionale che, come l’Accademia Navale di Livorno, forma ufficiali e sottufficiali [NdT].
  • 2. Prima dell’istituzione del Servizio Obbligatorio del Lavoro, Pierre Laval aveva inventato il sistema detto «del cambio». Questo prevedeva, dal giugno 1942 e allo scopo di accrescere il numero delle partenze volontarie verso la Germania, l’invio di operai in cambio del ritorno in Francia di prigionieri di guerra. Il fallimento di questa misura spingerà il governo francese ad adottarne delle altre.
  • 3. Impresa creata da Fritz Todt per grandi opere di interesse pubblico, in particolare in Normandia il sistema di difesa detto il Muro dell’Atlantico e la costruzione di piattaforme di lancio di «armi di rappresaglia» di tipo V1 (cfr. a tal proposito, in questo stesso racconto, la nota n° 29). In una direttiva di guerra, la n° 40 del 23 marzo 1942, Hitler ordinava la creazione di una linea difensiva, «Atlantikwall», che andasse dalla Norvegia ai Pirenei francesi seguendo le coste dell’Atlantico. Secondo Hitler, tale linea di fortificazioni, di vario tipo ma soprattutto in cemento armato, doveva essere ultimata entro la fine dell’anno (poi entro il 1° maggio 1943, ma sarà rafforzata dal generale Rommel ancora nel 1944). Mentre gli inglesi e gli spagnoli si limitavano a tradurre alla lettera il nome di tale progetto, «El Muro Atlántico», «The Atlantic Wall», gli italiani – lanciati in pieno dal fascismo in una politica linguistica antieuropeistica e xenofoba, volta deliberatamente all’autogratificazione culturale – scelsero una traduzione non letterale, «Il Vallo Atlantico». Costituendo una presa di posizione ideologica, tale scelta era fortemente simbolica: alludeva alla grande Storia Romana e al possente «Vallo di Adriano» (lat. Vallum Aelium), fortificazione in pietra che quest’imperatore aveva fatto costruire a partire dal 122 d.C. in Britannia, per impedire alle popolazioni scozzesi dell’epoca, le tribù dei Pitti, di compiere incursioni lungo la frontiera settentrionale dell’Impero Romano. Se la parola «vallo» è, prima del fascismo, un «palancato», uno «steccato» costruito genericamente in tempi di guerra (cfr. Dizionario Fanfani 1855, ristampa 1905), oppure un semplice steccato o la sponda rialzata d’un fosso, con tanto di steccato, tipica dei Romani (Dizionario Tommaseo 1905, ristampa 1963), dopo il fascismo, la parola stessa «vallo» suona come un termine arcaizzante, letterario, se non poetico (oggi nel linguaggio corrente è quindi un sostantivo inusitato) e come termine tecnico rinvia soltanto alla storia romana o, per l’appunto, al Vallo Atlantico (cfr. Dizionario Devoto-Oli 1971; Grande Dizionario Garzanti, 1987, ristampa 1993). Il Vallo Atlantico è perciò ai nostri occhi un fossile linguistico del fascismo che l’Italia repubblicana dovrebbe rimuovere, come ha rimosso negli anni ’70 le leggi fasciste a difesa della stirpe italica. Ecco perché, con una scelta europeista che privilegia semplicità e chiarezza, chiameremo sempre in traduzione italiana il suddetto «Atlantikwall» con l’espressione letterale «Muro dell’Atlantico» [NdT].
  • 4. Sui 1889 renitenti della Manche identificati, soltanto 25 appartengono alla categoria dei marinai. Cfr. M. BOIVIN, Les Manchois dans la tourmente de la Seconde Guerre mondiale: 1939-1945, Tome 3, L’Occupation: l’ordre allemand, le régime de Vichy et la collaboration, Marigny, Eurocibles, 2004, p. 314.
  • 5. Parola che in tedesco indica il capo del campo [NdT ].
  • 6. Ferrovie dello Stato tedesche.
  • 7. Michel Bovin afferma che lo stipendio mensile dei civili precettati della Manche era compreso tra i 100 e i 200 marchi per una giornata di lavoro che oscillava tra le dieci e le dodici ore. Michel Bovin, op. cit., p. 243.
  • 8. Michel Bovin ha ritrovato 91 atti di morte di mobilitati nei registri anagrafici dei comuni della Manche. Lo storico nota che «il 42,5% dei decessi sono dovuti a una malattia (tubercolosi, appendicite, difterite, meningite)» (op. cit., p. 243). Curate male, queste malattie a volte benigne diventano in effetti fatali. Inoltre i bombardamenti causarono in Germania il 26,2% dei morti nei precettati provenienti dalla Manche.
  • 9. Fino all’inizio del 1944, siccome non c’erano limiti per l’invio della posta, i precettati mandavano con una certa regolarità i loro pacchi in Francia.
  • 10. Nel 1943 fu attuato dai nazisti il Generalplan Ost (Ost in tedesco significa semplicemente Est) che consisteva in un progetto generale di colonizzazione tedesca di alcune fertili zone agricole polacche deportando e sterminando col lavoro forzato le popolazioni polacche, ebree e ucraine originarie di queste stesse terre [ NdT].
  • 11. Cantiere navale e base portuale degli U-Boot (sottomarini), Wilhelmshaven è uno dei punti nevralgici della marina militare del Reich.
  • 12. Konzentrationslager: campo di concentramento.
  • 13. La parola tedesca Kommando indica quindi in questo caso un campo di lavoro separato dal campo centrale, più o meno lontano da esso ma che ne dipende sul piano amministrativo [NdT].
  • 14. Data dell’annuncio dell’armistizio firmato dall’Italia e dagli angloamericani.
  • 15. A partire dal settembre 1943, le autorità tedesche riducono il numero delle licenze. La ragione di questo calo è il non rientro in Germania di una parte dei beneficiari di tali permessi. Lo studio sui civili mobilitati della Manche mostra che, dei 758 mobilitati partiti in licenza, il 67,7% non è tornato in Germania.
  • 16. Si tratta dei marchi tedeschi allora in uso [NdT].
  • 17. In Germania, nel maggio 1933, i sindacati sono vietati e al loro posto è istituito il Fronte tedesco del lavoro (Deutsche Arbeitsfront, DAF).
  • 18. Il carrello è l’insieme delle ruote e della scocca di un treno: elemento indipendente del veicolo, esso si monta sulla parte inferiore della cassa [NdT].
  • 19. In francese ACVG: Anciens Combattants et Victimes de Guerre.
  • 20. NSDAP, ovvero National sozialistische Deutsche Arbeiter ppartei, partito diretto da Hitler.
  • 21. Traducendo la parola francese asile con il termine italiano meno polisemico asilo perdiamo qui il senso forse più ironico del testo: l’idea del rifugio anche per gli alienati mentali, l’asile come manicomio [NdT].
  • 22. Generale francese vicino al Maresciallo Pétain, responsabile dei cosiddetti Cantieri della Gioventù (Chantiers de la Jeunesse). Accusato di insubordinazione dalle truppe di Occupazione, viene arrestato nel suo ufficio a Châtel-Guyon il 4 gennaio 1944, poche ore dopo essere stato dimesso dal suo incarico.
  • 23. Mercato di Molay-Littry, così chiamato perché situato in prossimità di una miniera di carbon fossile [NdT].
  • 24. Questo gruppo armato della Resistenza francese, che opera nell’Alta Savoia ed è composto da alcune centinaia di partigiani, viene attaccato alla fine del mese di marzo 1944 dalle forze tedesche. Nella battaglia, perderanno la vita un centinaio di partigiani.
  • 25. Termine utilizzato dalle autorità di Vichy per indicare i bombardamenti e gli attacchi alleati sul territorio francese. È un termine che troviamo anche su molti manifesti della propaganda.
  • 26. Caccia americano a doppia fusoliera, munito di un cannone da 20 mm e di quattro mitragliatrici, che può trasportare dieci razzi.
  • 27. La galena è il più importante minerale del piombo (solfuro di piombo) una volta utilizzato nei ricetrasmettitori [NdT].
  • 28. Sapendo che sarà difficile impadronirsi di una città portuale in breve tempo, gli Alleati prevedono, fin dal 1942, di creare dei «porti artificiali». Questi Mulberries (nome in codice dato ai porti artificiali) sono costituiti da vecchie navi affondate e da immensi blocchi di cemento collegati tra loro da moli galleggianti; essi emergono così davanti alle spiagge di Saint-Laurent-sur-mer e Arromanches e permetteranno alle grosse imbarcazioni di scaricare il materiale. Tra il 19 e il 22 giugno, una tempesta devasta il Mulberry di Saint-Laurent e danneggia in modo grave quello di Arromanches.
  • 29. Vergeltungswaffe eins: armi di rappresaglia n° 1. Missile telecomandato nel cui primo tragitto, il 12 giugno 1944, raggiunge il sud dell’Inghilterra. Essendo vicino ai centri urbani inglesi, il Cotentin è una base privilegiata per l’insediamento delle rampe di lancio. Molte di queste rampe saranno abbondantemente bombardate e rese presto inattive.
  • 30. Sigla di Government Issue: nome generico dato ai soldati americani [NdT].
  • 31. Questo aneddoto è interessante per due motivi. In primo luogo, mostra l’interesse alleato verso l’opinione pubblica normanna e francese. La popolazione sarà interrogata su vari argomenti (i bombardamenti, i rifornimenti, in questo caso la politica) con lo scopo di sondare lo stato d’animo del momento. In secondo luogo, il riferimento al generale Giraud rivela la posizione degli Alleati. Roosevelt, giudicando de Gaulle un apprendista dittatore, si sforza di mettere in prima linea un dirigente, e trova costui nella persona di Giraud. Dopo essere stato consigliato, Giraud si decide ad incontrare de Gaulle e insieme formano il Comité français de la libération nationale il 30 maggio 1943. Molto presto però Giraud si eclissa in favore del suo omologo, prima di dimettersi dall’incarico di comandante in capo delle truppe francesi dell’Africa del Nord. Bisogna malgrado tutto notare che, al momento della domanda posta a Louis Pesnel dagli americani (il 20 giugno 1944), de Gaulle ha già allora istituito in Normandia (fin dalla visita del 14 giugno 1944) un commissariato generale della Repubblica, con a capo François Coulet. Il futuro di de Gaulle non lascia più dubbi.
  • 32. Si tratta di un metal detector per individuare probabilmente la presenza di mine sui lati della strada [NdT ].
  • 33. Termine dispregiativo per indicare i tedeschi.
  • 34. Per tirante d’acqua si intende la distanza verticale tra la parte più bassa della chiglia e la linea di galleggiamento della nave. Quest’ultima se ha un tirante ampio si arena in porti dal fondale troppo basso [NdT].
  • 35. Il tentativo di assassinio si verifica il 20 luglio 1944, fomentato da alcuni membri della cerchia di Hitler: si conclude con un fallimento ed il Führer è solo lievemente ferito. Numerosi testimoni fanno riferimento all’evento, il che è spiegabile per due motivi: il martellamento della stampa e la speranza di una fine prossima.
  • 36. Impantanati in una «guerra delle siepi», gli strateghi americani intraprendono un’operazione per aprire un varco nella linea di difesa tedesca. Questa operazione, che comincia il 25 luglio 1944, ha come nome in codice «Cobra». Prima dell’attacco, gli alleati procedono con la solita strategia del bombardamento a tappeto.
  • 37. Riunite le loro forze a Rancoudray, i tedeschi lanciano una controffensiva la mattina del 7 agosto 1944 con sette divisioni, di cui quattro Panzer. Questa operazione, detta «Lüttich» («Liegi»), ha come obiettivo quello di sfondare in direzione di Avranches e dividere così in due le linee americane, le quali continuano la loro penetrazione verso la Bretagna. Approfittando dell’effetto sorpresa e della nebbia, i tedeschi riescono a riconquistare Mortain. Ma qualche ora dopo, subentrato il sole alla nebbia, i cacciabombardieri alleati entrano in azione provocando seri danni alle linee tedesche. Il tentativo di contrattacco tedesco fallisce anche grazie all’arrivo di rinforzi americani.
  • 38. Attuata il 15 agosto 1944, l’operazione «Anvil», ribattezzata «Dragoon», doveva permettere agli Alleati di mettere piede sulla costa meridionale della Francia per spingersi poi verso il nord e operare una congiunzione con le truppe sbarcate in Normandia. Come in questa testimonianza, tale sbarco alleato è menzionato in altri scritti normanni, ma sempre di sfuggita.
Numero di catalogo:
  • Numéro: TE364
  • Lieu: Mémorial de Caen
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