uri:/?q=it/archive/ricordi-dello-sbarco-del-giugno-1944-memorie-di-una-giovane-maestra-normanna/3876 filename=index.html@q=it%2Farchive%2Fricordi-dello-sbarco-del-giugno-1944-memorie-di-una-giovane-maestra-normanna%2F3876.html page=archive/ricordi-dello-sbarco-del-giugno-1944-memorie-di-una-giovane-maestra-normanna/3876 Ricordi dello sbarco del giugno 1944. Memorie di una giovane maestra normanna | Mémoires de guerre

Vous êtes ici

Ricordi dello sbarco del giugno 1944. Memorie di una giovane maestra normanna

Autore : 
Marcelle HAMEL
Racconto raccolto da Etienne Marie-Orléach
Edizione critica, presentazione e note di Etienne Marie-Orléach
Traduzione Eva Ristori e Viviana Agostini-Ouafi

Nata nel 1916 a Octeville, comune situato nel Nord della Manche, Marcelle Hamel arriva a Neuville-au-Plain, nei pressi di Sainte-Mère-Église, il 1° aprile 1940 per insegnare nella scuola elementare. Poi, dopo otto anni passati nel piccolo borgo, la maestra ritorna nel Cotentin settentrionale, a Cherbourg. Conseguita la laurea in Lettere, Marcelle Hamel prosegue la sua carriera, è anche insignita delle Palmes Académiques e ricopre più volte l’incarico di direttrice scolastica, in particolare nella sua città natale dal 1968 al 19751 Per quanto riguarda le Palmes Académiques si tratta del più antico riconoscimento istituito dal Presidente del Consiglio Edgar Faure il 4 ottobre 1955 per onorare le personalità eminenti nel campo dell’istruzione. Tale onorificenza trae origine dal titolo creato nel 1808 da Napoleone I, rivolto alle personalità di spicco che operano nell’ambito dell’Università [NdT]. . Ritiratasi in pensione a Omonville-la-Rogue, vi si spegnerà il 25 ottobre 1988. I Ricordi dello sbarco del giugno 1944 sono stati redatti subito dopo la fine della guerra, il che conferisce al testo l’immediatezza dell’evento narrato facendo provare al lettore l’impressione di rivivere l’angoscia, le paure e le gioie della giovane donna. Tale testimonianza inedita è stata affidata al Mémorial de Caen da un donatore normanno, noi vi abbiamo aggiunto solo il sottotitolo, simile alla definizione che il donatore stesso aveva dato al racconto, «Memorie di una giovane maestra, in Normandia». Il testo si trova negli archivi del Mémorial de Caen catalogato sotto la sigla TE 277.

1940-1944: gli anni dell’Occupazione

Il 5 aprile 1940 iniziai a insegnare nella mia classe di Neuville, una classe unica di trentadue alunni, bambini e bambine dai cinque ai tredici anni. Avrei mille storie curiose e divertenti da raccontare sulla mentalità contadina del posto e sul conseguente approccio pedagogico che dovetti utilizzare con i miei cari alunni e le loro famiglie. Ma qui sarebbe fuori luogo.

Nell’aprile del 1940 pensavamo ancora di star forgiando, coi rottami di ferro, l’acciaio vittorioso. Non ci avremmo messo tanto ad abbassare la cresta. A maggio, prima ancora di aver avuto il tempo di capire che cosa stesse accadendo, si abbatté su di noi la valanga verdegrigia2 «Verdegrigi» è il soprannome dato ai soldati tedeschi in riferimento al colore dell’uniforme della Wehrmacht.. La voce del Maresciallo3L’autore si riferisce al discorso radiofonico del maresciallo Pétain che il 17 giugno 1940, soltanto tre giorni dopo l’ingresso dei tedeschi a Parigi, annuncia che il governo formatosi la notte precedente chiederà l’armistizio. Il celebre discorso «è con immenso dolore che, oggi, vi comunico che dobbiamo smettere di combattere» sarà seguito, qualche ora dopo, il 18 giugno 1940, dall’appello lanciato dal generale de Gaulle. ci risvegliò dal torpore per gettarci nella disperazione. L’appello del generale de Gaulle4Diffuso da Londra sulle frequenze della BBC il 18 giugno 1940, l’appello lanciato dal generale de Gaulle è poco ascoltato quello stesso giorno alla radio. Il passaparola e la stampa permetteranno di diffondere più diffusamente il messaggio alla popolazione francese. fu come la luce in fondo al tunnel. Noi non conoscemmo mai la tragedia dell’esodo: assediati nella penisola del Cotentin, dove saremmo potuti andare? Il mare era ormai diventato un campo minato e soltanto i più audaci avrebbero cercato di attraversarlo per giungere nella libera Inghilterra.

La sconfitta si era ormai compiuta, adesso bisognava organizzarci per sopravvivere fino al giorno della vittoria. Qui, in questa campagna ricca di pascoli, eravamo dei privilegiati. Avevamo sempre il necessario, a volte persino il superfluo, e ne approfittavamo con buona pace della nostra coscienza, dicendoci che si trattava comunque di tanto di guadagnato malgrado i tedeschi. L’abitazione assegnata alla maestra era priva di confort e piuttosto in cattivo stato, ma mia madre, che abitava con me, ne seppe ricavare un alloggio abbastanza carino e lo sistemò nel modo migliore perché potessimo viverci dignitosamente.

Ogni settimana prendevamo la corriera per andare a Cherbourg a portare un po’ di provviste ai miei nonni materni e alla prozia Rosalie che si era trasferita nella nostra casa di Octeville per evitare che fosse requisita. Gli autobus che provenivano da Saint-Lô arrivavano a Neuville già pieni di gente e li dovevamo quasi prendere d’assalto. Di solito facevamo tutto il tragitto in piedi. A volte la corriera era talmente affollata che non si fermava nemmeno e così dovevamo farci sei chilometri a piedi con tutte le nostre borse fino alla stazione di Fresville per poi prendere un treno locale che spesso aveva molte ore di ritardo. Al ritorno la situazione non migliorava. Quando non riuscivamo a salire sull’autobus, dovevamo correre a prendere il «treno dei fuggiaschi» e rifare a piedi, in piena notte e a volte sotto la pioggia, il tragitto dalla stazione di Fresville a casa nostra. Quello che chiamavamo «treno dei fuggiaschi» era il treno che partiva da Cherbourg tutte le sere e che portava verso le campagne e i borghi dell’entroterra quegli abitanti di Cherbourg che erano «sfollati» in quelle zone per paura dei bombardamenti notturni e che andavano in città soltanto per sbrigare il lavoro e le faccende del giorno.

Spesso, infatti, le notti a Cherbourg erano turbate dagli attacchi aerei. Ricordo che una notte ci fu un terribile bombardamento effettuato da una squadriglia della marina inglese5Cherbourg subisce un bombardamento da parte della flotta britannica la notte tra il 10 e l’11 ottobre 1940.. Molti civili rimasero uccisi e intere famiglie vennero seppellite sotto le case colpite dalle grosse granate della marina. Quella notte tutti ebbero l’impressione che non si trattasse di un bombardamento ordinario e che quell’inferno non sarebbe mai finito. Non c’è niente di più angosciante di un pericolo che ti minaccia per ore e ore senza che tu possa uscire, né sapere che cosa stia succedendo, né dove andranno a cadere le bombe. Se da un lato gli abitanti di Cherbourg ebbero la fortuna di non conoscere mai bombardamenti massicci come quelli che dovevano distruggere Caen e Saint-Lô, dall’altro furono logorati durante tutta la guerra da simili attacchi aerei che ogni volta lasciavano dietro di sé morte e distruzione6Il 24 luglio e il 30 settembre 1941 la città viene colpita dalle bombe inglesi che provocano la morte di numerosi civili e la distruzione di alcuni edifici, in particolare il 30 settembre nella rue Tour Carrée..

Nel maggio del 1943 conoscemmo un nuovo tormento. I tedeschi ordinarono lo sfollamento di Cherbourg7Donne, bambini e anziani sono colpiti da tali ordinanze di sfollamento che entrano in vigore nel 1943.; così i nonni furono costretti ad abbandonare la casetta in cui avevano vissuto per tutta la vita e noi dovemmo portare via il maggior numero possibile di cose dalla nostra casa di Octeville, dove abitava la zia Rosalie, e che era appena stata requisita per alloggiare un ufficiale tedesco. Questi traslochi furono un’impresa colossale per me e mia madre, tanto più che dovemmo portarli a termine soltanto con i pochi mezzi a nostra disposizione e con l’aiuto di qualche volontario mosso da compassione. La cosa più difficile era trovare dei mezzi di trasporto dato che tutta Cherbourg stava traslocando nello stesso momento. Per fortuna, la scuola di Neuville aveva delle immense soffitte e noi riuscimmo a sistemarci tutta la nostra roba.

Così ci ritrovammo a Neuville tutti e cinque: i nonni, la zia, la mamma e io. Ero molto felice di averli vicini dato che sentivamo, soprattutto in seguito allo sfollamento di Cherbourg e delle zone costiere8Le autorità tedesche stabiliscono una zona vietata, lunga una decina di chilometri, in particolare sulle coste della Manica e dell’Atlantico. Dopo aver fatto sfollare donne, anziani e bambini dall’agglomerato urbano di Cherbourg, sarà poi il turno dal marzo 1944 di tutte le persone ritenute non utili. Agli «inutili», così soprannominati in quell’epoca, si unirà gran parte della popolazione rimasta in città per timore dei bombardamenti che, nella primavera del 1944, andavano intensificandosi., che grandi eventi stavano per accadere.

Maggio 1944: il «giorno G» si avvicina9 Gli Alleati designano il 6 giugno 1944, giorno fatidico dello Sbarco in Normandia, con l’espressione « D-Day », tradotta in francese con «jour J» [NdT].

Ormai da tempo il mito della difesa elastica sul fronte russo, lo sbarco degli Alleati nell’Africa del Nord e la sconfitta di Rommel a El-Alamein10L’esercito britannico ha il sopravvento a El-Alamein sulle armate tedesche e italiane il 2 novembre 1942. ci facevano ben sperare che presto sarebbe stato l’inizio della fine, forse il giorno successivo, o forse più tardi, ma sicuramente prima dell’autunno.

Nel frattempo però i tedeschi ci sono sempre. Non proprio a Neuville, dove per tutta la guerra sono stati visti soltanto di passaggio, e nemmeno nel nostro entroterra dove, sparpagliati, si sono accantonati soltanto alcuni soldati di seconda categoria e di tutte le età: ragazzotti e persone attempate a cui si uniscono talvolta spaventosi uomini gialli venuti da chissà dove ma che, si dice, siano georgiani11I georgiani, che prestano servizio come ausiliari nell’esercito tedesco, formano il 795° battaglione della 709a divisione di fanteria. Tale battaglione si occupa della difesa di una delle spiagge di Sainte-Marie-du-Mont, situata a qualche chilometro di distanza da Neuville-au-Plain.. In compenso, però, di tedeschi ce ne sono tantissimi lungo le coste dove rinforzano con una certa fretta la fitta rete dei bunker. Anche loro, come noi, aspettano che accada qualcosa. Hanno mobilitato dei civili del posto per accelerare i lavori di difesa. Un po’ ovunque, nei campi, fanno scavare trincee e fossati anticarro e predisporre spazi per i cannoni. Le basse praterie che si stendono dietro la duna litoranea tra Sainte-Marie-du-Mont e Quinéville sono state parzialmente inondate. Ma soprattutto si danno un gran daffare a piantare dei pali, i famosi «asparagi di Rommel»12Il nome «asparagi di Rommel» si deve alla popolazione locale che, mobilitata dalle autorità tedesche, è costretta a erigere pali sui terreni che possono essere utilizzati come piste di atterraggio dagli Alleati., in tutte le distese ampie e libere che possono servire da piste di atterraggio per gli aerei degli Alleati. I lavori procedono però molto lentamente perché i francesi che sono stati chiamati a svolgerli manifestano la più assoluta mancanza di zelo. In questo mese di maggio il tempo è così bello che sembra già estate ma noi siamo angosciati, abbiamo l’impressione di vivere ai piedi di un vulcano che potrebbe eruttare da un momento all’altro. Ogni giorno le fortezze volanti ronzano nel cielo sopra di noi. Una notte veniamo svegliati da un forte bombardamento; ci alziamo e usciamo a vedere che cosa sta accadendo. Dalla parte del mare un fantastico fuoco d’artificio disegna nel cielo serpenti infuocati che sibilano tra gli schianti delle esplosioni e il rombo delle squadriglie in sottofondo. Poco a poco il bagliore svanisce, il rumore dei motori si allontana. Il buio e il silenzio si impossessano nuovamente della notte. Rientro in casa, sollevata e delusa allo stesso tempo. La mattina seguente vengo a sapere che le difese tedesche dalla parte di Saint-Martin-de-Varreville13Le batterie costiere situate nel comune di Saint-Martin-de-Varreville (quattro cannoni) subiranno molteplici attacchi alla vigilia dello Sbarco, nella notte tra il 5 e il 6 giugno 1944. sono state bombardate e seriamente danneggiate dall’aviazione alleata ma che per fortuna non ci sono state vittime tra i civili. È la prima volta che la costa viene bombardata. Ora più che mai sentiamo che lo sbarco è prossimo e siamo convinti che avrà luogo nei paraggi. Dato che i tedeschi ci hanno fatto depositare le radio nei municipi14Prima che le grandi operazioni militari in Normandia abbiano inizio, i tedeschi, consapevoli dell’importanza dell’ascolto della radio, specialmente della BBC da parte dei partigiani, ordinano che tutti gli apparecchi TSF (Telegrafia senza fili) siano portati in municipio. Così, dal marzo 1944, i civili si vedono costretti a consegnare i loro apparecchi radio., è con una piccola radio a galena che udiamo la BBC la mattina del 5 giugno dare la notizia della presa di Roma. Tutti parlano soltanto di questo. E iniziamo a sognare, sempre più euforici, il giorno in cui anche le nostre città potranno accogliere gli Alleati. L’idea che ciò costerà molto sangue e molte lacrime ci sfiora appena.

La notte tra il 5 e il 6 giugno: una pioggia di paracadute

Di giugno i giorni sembrano senza fine e la notte è solo un lungo crepuscolo giacché l’oscurità non è mai totale. Sono circa le 22 di lunedì 5 giugno, e mi sono appena coricata accanto a mia madre. Dormiamo entrambe su un divano letto che ogni sera apriamo nella sala comune, poiché dopo lo sfollamento di Cherbourg abbiamo lasciato la nostra camera ai nonni. Il divano è di fronte alla finestra spalancata sulla notte e io, dal mio letto, contemplo ancora un attimo la fine della bella giornata. Ripenso con malinconia a un’altra sera di giugno molto simile, quella del giugno 1940 in cui il mio amico Jean mi ha lasciata per unirsi al movimento Francia libera15Il gruppo Francia libera si costituisce intorno al generale de Gaulle fin dal giugno 1940 e stabilisce la sua sede nevralgica a Londra. I membri del gruppo vogliono aiutare attivamente gli Alleati nei combattimenti. Si uniscono quindi a tali truppe in Africa, in Italia, poi in Normandia in occasione dello Sbarco.. Ho saputo che era sbarcato in Africa del Nord, forse sarà già in Italia? Forse presto… Ma ora basta pensare, proviamo a dormire.

All’improvviso il rombo degli aeroplani viene a turbare il silenzio della notte ma ormai ci siamo talmente abituati che lo notiamo appena, soprattutto qui dove non ci sono obiettivi militari e la linea ferroviaria è a più di cinque chilometri di distanza. Il rumore però si amplifica, il cielo si schiarisce e si tinge di rosso. Mi alzo e ben presto tutta la famiglia è lì con me. Usciamo in cortile dove tutto sembra tranquillo. Si sente soltanto, in lontananza, il rumore di un bombardamento in direzione di Quinéville. Eppure instancabili squadriglie sembrano aggirarsi misteriose nel cielo con un incessante ronzio. Poi piano piano tutto svanisce, e si sentono soltanto dei rumori vaghi e lontani. «È come l’ultima volta, hanno probabilmente bombardato i bunker della costa», dice mia madre. E torniamo tutti a letto.

La mamma si addormenta subito mentre io mi metto a sedere sul letto e continuo a contemplare il rettangolo di notte chiara delimitato dalla finestra. Poco a poco il bisogno di dormire mi intorpidisce la mente ma continuo a tenere gli occhi spalancati sulla notte. È in questo stato di dormiveglia che vedo spuntare, più cupe sullo sfondo chiaro-scuro del cielo, delle ombre fantastiche, simili a grandi ombrelloni neri, che sembrano piovere lentamente sui campi di fronte e poi sparire dietro la linea nera delle siepi.

No, non sto sognando! Anche la nonna, che non dormiva, li ha visti dalla finestra della sua camera. Sveglio la mamma e la zia. Ci rivestiamo in fretta e usciamo in cortile. Nel cielo risuona di nuovo un ronzio incessante che si amplifica sempre più. Dalle siepi provengono strani scricchiolii. Il signor Dumont, un vedovo che abita di fronte a noi con i suoi tre figli, è uscito anche lui di casa. Ci viene incontro per mostrarci la tela di un paracadute, rimasta impigliata nell’angolo della tettoia del portico. Nel frattempo anche i piccoli Dumont, che hanno seguito il padre, ci hanno raggiunto nel cortile della scuola. Ma la notte non ci ha ancora svelato il suo segreto.

Una curiosità impaziente è più forte dell’emozione che già mi pervade. Esco dal cortile e mi incammino sulla via. Allo steccato del campo vicino vedo un uomo seduto sul ciglio del fosso. Ha con sé grossi zaini ed è armato dalla testa ai piedi: fucile, pistola e una specie di pugnale. Mi fa segno di avvicinarmi. In inglese, gli chiedo se il suo aereo è stato abbattuto. Lui, invece, mi rivela sottovoce, in un francese privo di accento, l’incredibile notizia: «È la grande invasione16Espressione utilizzata dagli inglesi, dagli americani e dai tedeschi in riferimento alle operazioni militari del 6 giugno.... Migliaia e migliaia di paracadutisti stanotte scenderanno su questo paese. Io sono un soldato americano, ma parlo bene la vostra lingua perché mia madre è francese, viene dai Bassi Pirenei»17Le aviotruppe americane 82ª e 101ª saranno paracadutate nei pressi di Sainte-Mère-Église, Saint-Côme-du-Mont e Picauville. 13.000 uomini sono così imbarcati in 832 apparecchi allo scopo di impadronirsi delle strade chiave (come la Route Nationale 13), di distruggere ponti, far saltare la ferrovia in direzione di Carentan e annientare alcune batterie costiere. Tutto questo per impedire ai rinforzi tedeschi di arrivare e impossessarsi delle aree di sbarco. Nel 1969 il dipartimento dei Bassi Pirenei cambia nome per diventare il dipartimento dei Pirenei Atlantici. La Francia metropolitana si divide in 95 dipartimenti. Ogni dipartimento costituisce un’unità amministrativa e territoriale dello Stato che è l’esatto equivalente della provincia italiana. La Bassa Normandia è per esempio suddivisa in tre dipartimenti, ciascuno con il suo capoluogo amministrativo: Saint-Lô nel dipartimento della Manche (dipartimento indicato col numero 50), Caen nel Calvados (14) e Alençon nell’Orne (61) [NdT].. Gli domando: «Che cosa sta succedendo sulla costa? C’è uno sbarco? E i tedeschi?» L’emozione mi confonde i pensieri e mi fa farfugliare. Invece di rispondere alle mie domande, il soldato mi interroga sulla consistenza e la posizione del nemico nella zona. Lo rassicuro: «Qui non ci sono tedeschi; i più vicini sono accantonati a Sainte-Mère-Église, a circa due chilometri di distanza.»

L’americano mi dice che vorrebbe consultare la sua cartina in un luogo nel quale non ci sia rischio di scorgere da fuori la luce della sua torcia elettrica. Gli propongo di venire da noi. L’idea lo fa esitare perché teme di metterci nei guai, nel caso arrivassero all’improvviso i tedeschi. Un’eventualità del genere non mi ha nemmeno sfiorato e, come un incosciente di fronte al pericolo, mi rifiuto persino di prenderla in considerazione. Insisto e lo rassicuro: «Il signor Dumont e la mia vecchia zia sorveglieranno nei paraggi della scuola, uno sul davanti e l’altra sul retro.» Allora il soldato ci segue zoppicando. Mi spiega di essersi slogato la caviglia nell’atterraggio e rifiuta di lasciarsi curare. Ci sono cose più urgenti da fare. Nell’aula, dove con lui sono entrati anche la nonna, la mamma e i piccoli Dumont, si toglie uno dei suoi tre o quattro tascapane, strappa le strisce adesive che lo sigillano e ne estrae delle cartine militari. Ne stende una su un banco: è la cartina della regione. Mi chiede di mostrargli il luogo preciso in cui ci troviamo. Rimane sorpreso di essere così lontano dalla linea ferroviaria e da un piccolo fiume chiamato Le Merderet che costeggia la palude di Neuville verso ovest18I lanci dei paracadutisti furono caratterizzati da grande imprecisione, in particolare a causa del cattivo tempo che imperversava sulla regione e a causa della prudenza dei piloti. Alcuni paracadutisti si ritrovarono a volte a una trentina di chilometri dalla zona di atterraggio prevista.. Gli indico la strada da seguire per avvicinarsi a quella zona. È là, in linea di massima, che dovrebbe ritrovare i suoi compagni. Guarda l’orologio. Io, automaticamente, faccio lo stesso. Sono le undici e venti. Lui ripiega la cartina, fa sparire ogni traccia del suo passaggio e, dopo aver estratto dalla tasca del cioccolato per i bambini, tanto stupiti da dimenticare persino di mangiarlo, si congeda da noi. Sembra perfettamente calmo e padrone di sé ma la mano che mi tende è umida e si contrae un po’ nella mia. Gli auguro buon viaggio in un tono che vuole suonare gioviale. «Buonanotte a tutti voi!», risponde. Poi, per essere capito soltanto da me, aggiunge in inglese: «I giorni che verranno saranno terribili. Buona fortuna signorina, e grazie, vi penserò per tutta la vita.» E scompare come in un sogno.

Il mistero della notte si infittisce di nuovo. Restiamo fuori ad aspettare senza sapere bene cosa, parlando sottovoce. E all’improvviso ecco uno straordinario bagliore. Dalla parte del mare, l’orizzonte si schiarisce come fosse il riflesso di un immenso incendio appiccato sull’oceano. Il fortissimo boato dei cannoni della marina arriva fino a noi, ma attutito e un po’ coperto da molti altri indefinibili rumori.

Nere sagome di aeroplani arrivano a nugoli e volteggiano nel cielo. Uno di loro passa proprio sopra la nostra piccola scuola, accende i fari e sgancia… che cosa? Per un attimo temiamo che si tratti di un grappolo di bombe. Ma abbiamo giusto il tempo di pensare di doverci buttare a terra, perché quasi subito i paracadute si aprono e iniziano a ondeggiare come tante bolle nere nella notte chiara. Poi si sparpagliano, prima di scomparire confondendosi nel paesaggio notturno. Un altro aeroplano passa sopra di noi e sgancia il suo carico. Dapprima i paracadute sembrano trascinati nella scia dell’aeroplano, poi però scendono in una verticale vertiginosa e infine le grandi cupole di seta si aprono. La loro discesa diventa sempre più lenta via via che si avvicinano al suolo. Quella degli uomini, facilmente riconoscibili dalle gambe penzolanti, si compie però un po’ più velocemente rispetto a quella degli zaini con i viveri, il materiale e le munizioni. Ben presto nel cielo sopra di noi assistiamo ad un immenso balletto di paracadute.

Lo spettacolo a terra non è meno straordinario. Dappertutto nelle campagne, come se fossero lanciati da giocolieri invisibili, esplodono fasci di razzi multicolori. Poi ecco che nei campi circostanti, come vascelli fantasma, grandi aeroplani neri scivolano silenziosi verso il suolo dove sembrano posarsi come in un sogno! Sono le prime squadriglie di alianti. Il nostro primo paracadutista faceva parte di un gruppo di esploratori lanciati quaggiù per segnalare le zone di discesa e le aree di atterraggio. Le ore passano. Noi restiamo fuori in cortile. Agli scoppi e alle esplosioni si aggiunge, molto vicino a noi, il martellamento del galoppo dei cavalli spaventati che sono scappati dai loro recinti. Io vorrei tanto uscire per andare a vedere che cosa sta succedendo più lontano ma mia madre mi dissuade dal farlo.

6 giugno: impennata di gioia... e ricaduta nell’angoscia...

L’alba del 6 giugno rischiara poco a poco la notte. Rabbrividisco al soffio fresco del mattino. I Dumont se ne vanno a casa e anche noi rientriamo per riscaldarci un po’ nella tiepida e rassicurante atmosfera domestica.

D’un tratto, quattro o cinque soldati dal casco rotondo e con le armi in pugno entrano nel cortile. Quello che sembra essere il capo bussa violentemente alla porta, gridando con un forte accento yankee: «Noi, soldati americani... ci sono tedeschi qui?»

Vista la sua aria spavalda e sicura di sé, si direbbe che ha già vinto la guerra. Li accogliamo a braccia aperte. La loro certezza della vittoria è così contagiosa che anche noi iniziamo a credere di essere ormai liberi, come se in una notte tutto l’esercito tedesco si fosse volatilizzato. Momento d’euforia. Non riesco più a stare ferma, esco, entro, vado e vengo dalla porta d’ingresso allo steccato del cortile. Vedo passare paracadutisti che, rasentando le siepi, si dirigono verso i loro punti di ritrovo. La maggior parte ha il viso imbrattato di nero e mi guarda sorridendo in modo buffo sotto lo strano trucco. Molti strascicano un po’ la gamba, altri sono avvolti nella seta verde e bruna dei paracadute. Le loro figure massicce sotto al grande casco rotondo, i grossi coltelli infilati nella guaina degli alti scarponi di cuoio giallo, il loro portamento e l’andatura, tutto ciò fa pensare a storie di banditi e di Far West.

Un ragazzo che aveva trovato lavoro in una fattoria vicina ma che in realtà era, lo avrei saputo soltanto in seguito, uno della Resistenza, si presenta allo steccato insieme ad altri soldati americani e mi chiede di fargli da interprete. Finalmente potrò essere utile! Quello che suppongo sia l’ufficiale, sebbene nessun gallone lo distingua dagli altri, mi mostra la sua cartina militare e mi indica la fattoria delle Noires Terres, vicina al villaggio della Fière in prossimità della linea ferroviaria Parigi-Cherbourg, tra le stazioni di Fresville e di Chef-du-Pont. Vuol sapere la strada migliore per arrivare fin là e mi chiede se ci sono degli acquartieramenti tedeschi nei paraggi. Vorrebbe che qualcuno li accompagnasse. «Vengo io, conosco molto bene la strada», dice il giovane partigiano. E se ne va con loro.

Un altro gruppo di soldati si ferma davanti alla scuola. Anche loro stanno cercando di orientarsi. L’ufficiale mi fa segno di avvicinarmi. È felice di constatare che capisco l’inglese. Mi mostra su una cartina la «Chasse des trois Ormes» nei cui paraggi è fissato il suo punto di ritrovo. Si tratta di un piccolo sentiero, proprio in fondo alla costa all’ingresso di Sainte-Mère-Église. Dato che gli americani vogliono evitare la via maestra, il percorso diventa abbastanza complicato: bisogna sapere dove sono le brecce che permettono di passare attraverso le siepi e tagliare così per i campi. Mi offro di fare da guida. L’ufficiale, consapevole dei rischi, esita ad accettare la mia proposta. Ma dato che non ha scelta, senza smettere di masticare il suo chewing-gum, mi dice «OK» e mi dà una pacca amichevole sulla spalla. Allora partiamo. All’improvviso, mentre ci stiamo avvicinando a Sainte-Mère, parte una raffica di mitragliatrice. I soldati si fermano. Mi si stringe la gola. Se fossi stata sola, sarei già scappata di corsa verso casa ma sono con gli americani. Ancora due pascoli da attraversare costeggiando le siepi. Finalmente scorgiamo il sentiero dei Trois Ormes. Missione compiuta!

Ora però devo rifare il percorso al contrario e questa volta da sola. Mi sembra interminabile. Come in un incubo, ho l’impressione di camminare sullo stesso posto senza avanzare. Nei campi che attraverso, gruppi silenziosi di soldati stanno facendo cose che mi sembrano proprio strane. Alla Croix de Neuville, gli americani sistemano qualcosa di traverso sulla strada statale19 Si tratta della Route Nationale n° 13 (RN 13), strada statale che collega Parigi a Cherbourg via Caen [NdT] . . I tre figli di Dérot, un fattore del vicinato, e il suo garzone li osservano dal punto in cui la strada della scuola interseca la via maestra, proprio davanti alla Croix. Mi unisco al gruppetto di curiosi. Un soldato viene verso di noi e ci fa segno di allontanarci. Un altro, arrampicato sulla cima del palo elettrico più vicino, ha appena tagliato i fili. Da lassù, grida qualcosa che non capisco ai suoi compagni indaffarati sulla strada. Subito costoro si allontanano dal luogo in cui stavano trafficando e ci fanno arretrare insieme a loro nella via della scuola, mentre l’altro scende velocemente dal palo e ci raggiunge. Non abbiamo idea di che cosa stia per accadere ma siamo comunque sicuri che qualcosa accadrà.

L’attesa del resto dura poco. In men che non si dica, ecco che un camion militare tedesco, seguito da un’auto e da una moto, passa davanti alla Croix. Un’esplosione tremenda, una fumata carica di frantumi che saltano in aria e si sparpagliano in un grande fracasso di ferraglia… Ed è tutto finito. Capiamo così che gli americani avevano appena minato la strada. Ma quei tedeschi che, all’alba del 6 giugno, procedevano ad andatura sostenuta in direzione di Sainte-Mère-Église, loro non ci avrebbero mai più capito niente.

Adesso tutti gli abitanti del paese sono usciti di casa per accogliere i paracadutisti e festeggiano già lo Sbarco invitando gli americani a bere un bicchiere quando passano. Tante risate, tante esclamazioni di stupore davanti a cose nuove stupefacenti, come per esempio la piccola auto, una delle prime Jeep, scesa dal cielo in aliante.

Purtroppo la nostra felicità dura poco. Gli americani piazzano un piccolo cannone alla Croix, mi sembra di sentire un crepitio di spari. Mi arrischio sulla stradina e vedo un soldato appostato dietro la siepe. È immobile e chino, sembra in agguato. Appena mi scorge, posa misteriosamente un dito sulle labbra e mi indica qualcosa a sinistra. Volgo lo sguardo in quella direzione, e subito le parole che stavo per dire mi muoiono in gola. Alla svolta della stradina, alcuni soldati tedeschi avanzano in fila indiana, armi in pugno, schiene chine, costeggiando la siepe. Realizzo l’imminenza del pericolo e scappo verso casa. Non faccio in tempo ad entrare che molteplici raffiche di mitraglietta fanno vibrare i vetri.

I crucchi20 L ’appellativo dispregiativo «crucco», utilizzato dai soldati italiani durante la Seconda Guerra Mondiale per designare i tedeschi, in origine indicava gli slavi, poiché deriva dalla voce serbo-croata « kruh » che significa «pane». Tale termine è un possibile equivalente del francese «boche», qui impiegato dalla narratrice [NdT] . È difficile spiegare l’etimologia di «boche», sostantivo in uso a partire dalla seconda metà del XIX secolo. Possibile forma aferetica di «alboche», parola più antica preceduta dal prefisso «al-» per «allemand», tedesco. L’espressione francese «tête de boche», utilizzata nel gergo del XIX secolo, indica una persona dalla testa dura in riferimento alla palla di legno, la «boche» appunto, utilizzata nei giochi dei birilli. Ma potrebbe anche trattarsi del diminutivo di «caboche», termine colloquiale che indica la testa. sono ancora qui! Non ci posso credere! Arrivo persino a chiedermi se li ho visti davvero. Ahimé! I dubbi svaniscono non appena scorgo dalla finestra un gruppo di uniformi grigioverdi che escono dal cortile del signor Dumont. La delusione è brutale. Cerco di aggrapparmi alla speranza che si tratti soltanto di un gruppetto di soldati isolati che cercano di ricongiungersi verso Montebourg al resto della truppa. Infatti ecco ora tre americani che passano, gettano sguardi inquisitori verso i cespugli delle siepi, pronti a reagire al minimo movimento sospetto. Sono circa le 4 del pomeriggio. Rientro prudentemente in casa dove, da dietro la finestra, resterò fino a notte fonda a osservare con ansia quello che accade fuori. Ad essere sincera, non vedo granché. Soltanto l’indomani, ascoltando gli uni e gli altri, saprò qualcosa di più sugli avvenimenti della serata.

I tedeschi, dapprima disorientati, hanno reagito e si sono raggruppati. Per questo piccoli gruppi dei due schieramenti si incontrano e si scontrano nei campi, sulle stradine e sui sentieri intorno al borgo. Siccome i tedeschi hanno ricevuto dei rinforzi, ora contrattaccano, mettendo gli americani in una posizione piuttosto critica. Un ciclista annuncia al castello che una colonna tedesca sta scendendo da Emondeville verso Neuville. Appena il tempo di avvisare gli americani presenti che la colonna è già arrivata. Ci sono tedeschi ovunque, intorno al castello, nel parco, in cortile, in giardino. Spuntano da tutte le parti, accerchiano il castello e poi lo occupano. Vi conducono gli americani feriti che hanno fatto prigionieri e anche il cadavere di uno dei tedeschi che era sul camion fatto saltare in aria al mattino alla Croix de Neuville. Forse è il conducente perché la rigidità cadaverica l’ha immobilizzato nel gesto di tenere ancora il volante. L’hanno steso sul lungo tavolo della cucina dove attira le mosche.

Insomma, la sera del 6 giugno, la situazione che noi percepiamo a Neuville non è delle migliori e molto confusa. Non abbiamo ancora perso la speranza ma la gioia del mattino è rimpiazzata da una pesante angoscia.

La notte tra il 6 e il 7 giugno: il ritorno in forza dei tedeschi

La notte che è appena cominciata non sarà altro che una lunga e angosciante veglia. Abbiamo chiuso le imposte e, dato che è saltata l’elettricità, mia madre ha tirato fuori una vecchia lampada Pigeon che diffonde nella stanza una luce sinistra, da veglia funebre. Mi sforzo di restare ottimista nonostante l’inquietudine che cresce. Provo a rassicurare gli altri e li convinco a mettere un po’ di cose nelle valigie nel caso dovessimo partire in fretta e furia : così teniamo la mente occupata e facciamo passare il tempo. All’improvviso mi sembra di sentire i passi di una truppa in marcia, poi delle parole incomprensibili che suonano come ordini. Il rumore viene dalla via maestra. Usciamo in giardino e, stavolta, distinguiamo con chiarezza il battere degli stivali unito al suono martellante degli zoccoli dei cavalli e a quello più pesante dei veicoli. Non ci sono dubbi: sono i tedeschi che ritornano in forza. Non ci resta che rientrare in casa e aspettare… ma aspettare che cosa? Non oso pensarci.

I rumori ora sono più vicini. I crucchi devono essere arrivati nella nostra stradina. Mi sembra addirittura che si fermino davanti alla scuola. O mio Dio, sento le macchine che entrano in cortile, anche se ho molta paura voglio comunque sapere che cosa sta succedendo. Salgo su uno sgabello per guardare il cortile dalla fessura in alto sulla porta. La notte è piuttosto scura e intravedo, senza distinguerle nettamente, due lunghe vetture a quattro ruote, in parte coperte da un telone. Le sagome di queste pesanti bagnarole che ricordano gli antichi carri dei pionieri del Far West sono ormai divenute familiari da quando le riserve di carburante dei tedeschi hanno cominciato ad esaurirsi. Il cortile è ora pieno di soldati e di materiale bellico. Alcuni aeroplani, forse americani, volano a bassissima quota e mia madre dice: «Di sicuro ci stanno localizzando. E con un tale arsenale in cortile, sarà sicuramente un massacro.» Quello che c’è di bello con mia madre, è che le catastrofi che predice non si avverano mai. È una specie di anti-Cassandra, è proprio questo che mi dico per ritrovare un po’ di ottimismo. E ce ne vuole, dato che continuano ad arrivare nuove truppe che prendono posizione nelle trincee scavate di recente nel giardino della canonica e nei campi vicini. Ne scavano di nuove anche al cimitero. Alcuni cannoni sono nascosti sotto i grandi alberi del parco del castello.

Nella notte tra il 6 e il 7 giugno, la maggior parte delle case è vuota perché gli abitanti del paese, appena hanno visto tornare i tedeschi, hanno cercato di allontanarsi dalla strada statale, luogo più probabile per lo scontro. È già un miracolo che per alcuni di loro questo esodo non si sia trasformato in tragedia. Mi ricordo quello che mi disse qualche giorno più tardi la signora Poussard, la proprietaria dell’osteria Bon Accueil, quando mi raccontò la sua versione dei fatti con la solita e imperturbabile placidità: «Io volevo rimanere qui a proteggere la bottega per non farci portar via niente, ma le ragazze avevano fifa e Michel (suo figlio) era già partito. Gli dicevo: “Nascondetevi sotto il biliardo e pregate Suor Teresa”21Santa Teresa di Lisieux (Alençon, 1873 – Lisieux, 1897): suora carmelitana beatificata nel 1923 e proclamata santa nel 1925 da Papa Pio XI. Nel maggio 1944 viene anche proclamata patrona secondaria di Francia da papa Pio XII. In Normandia, sua terra natale, Santa Teresa è molto venerata dai fedeli.. Ma loro niente, non volevano rimanere. Allora siamo andate alla fattoria di Dancourt. Quando abbiamo attraversato il campo della canonica abbiamo visto da una parte dei tedeschi in una trincea e dall’altra gli americani dietro la siepe. Di sicuro, mica si vedevano tra loro. Noi allora siamo passate nel bel mezzo del campo con le braccia alzate, urlando: “Civili, civili!”.» O beata incoscienza del pericolo.

7 giugno: Neuville nell’inferno della battaglia

Da quanto ci sia possibile capire, sembra ormai chiaro che gli americani siano stati paracadutati qui per tagliare in due la penisola tra la Madeleine, Sainte-Mère-Église e Saint-Sauveur-le-Vicomte22La penisola del Cotentin viene isolata il 18 giugno quando i paracadutisti arrivano sulla costa occidentale.. I tedeschi occupano ancora tutta la parte nord23Cherbourg sarà liberata soltanto il 26 giugno.. È per questo che i soldati isolati e dispersi cercano di risalire verso Montebourg e, in seguito, raggruppati e in forza, ridiscendono per eliminare gli americani concentrati intorno a Sainte-Mère-Église. A Neuville siamo in prima fila per assistere al viavai e agli scontri dei due eserciti.

La mattina del 7 giugno Neuville è quindi in mano ai tedeschi. Ma durante la notte sono atterrati altri paracadutisti americani. Gli abitanti del paese che di notte erano fuggiti e che al mattino ritornano, come se niente fosse, per mungere le mucche, ne vedono di tutti i colori: un aliante si è schiantato poco lontano dalla Croix, di traverso sulla strada della Fière; tutta la campagna è cosparsa dalle macchie multicolori dei paracadute; alcuni sono rimasti impigliati ai rami degli alberi e si gonfiano al soffio leggero del vento. Spettacolo più triste nel campo di Quertier: un poveretto si è ucciso durante l’atterraggio. La canna del fucile gli è entrata nel fianco provocandogli un’enorme ferita. Ma a quanto sembra non è morto sul colpo: giace supino, con le mani giunte, e vicino a lui sono disposte lettere e fotografie. Un giovane contadino si prende anche la briga di inginocchiarsi vicino al cadavere, di rimettergli fogli e foto nella tasca dell’uniforme e di ricoprirlo con la tela del paracadute!

I tedeschi hanno sistemato un cannone antiaereo sul ciglio della strada statale, la RN13, puntato contro Sainte-Mère-Église. Sentiamo la signora Poussard, che abita proprio lì accanto, raccontarci come ha visto la cosa: «Pensate, era un cannoncino piccino piccino. Erano più di una dozzina a trafficarci intorno. Tra un’esplosione e l’altra, venivano a cercare da me i boccali di birra. Hai voglia a dirgli di riportarmi i boccali vuoti, che poi l’Agnès (di Montebourg), lei non me ne voleva rendere altri. Mica mi ascoltavano! Scappavano come se avessero il fuoco al didietro senza nemmeno raccattare il resto. Cosa pensavano, di vincere la guerra con quel miserabile cannoncino da nulla?»

Intanto gli americani, che controllavano tutti i paraggi di Sainte-Mère-Église, avevano individuato il pezzo d’artiglieria tedesco e, tenendolo in maggiore considerazione rispetto alla signora Poussard, sparavano senza sosta nei dintorni allo scopo di colpirlo. Fu così che la casa che si trovava proprio davanti all’osteria e vicino al cannone era crollata sotto ai loro colpi. Poiché mi preoccupavo per gli abitanti di quella casa e volevo sapere se erano riusciti a scappare in tempo, la signora Poussard mi rassicurò: «Hanno fatto in tempo perché quegli altri, mica hanno buttato giù la casa al primo colpo…»

Più vicino a noi, in mattinata, un rombo sordo fa tremare il suolo all’improvviso: cinque cannoni montati su cingoli – ho saputo poi che erano degli 88 mm austriaci – sfilavano sulla nostra stradina, camuffati sotto alcune frasche; uno è addirittura nascosto sotto la tela di un paracadute americano. Gli ordigni passano e ripassano come se fossero alla ricerca di un buon punto strategico… Bisogna sperare che non si piazzino vicino a casa nostra. Allora penso che, per essere pronti ad ogni eventualità, sia bene organizzarci subito per proteggerci!

A scuola non abbiamo né una cantina, né un rifugio, né una trincea. Per fortuna i muri sono spessi e solidi. Per proteggerci dai proiettili e dalle schegge di granata che potrebbero entrare dalle finestre, appoggiamo dei materassi contro queste ultime e ne disponiamo altri ad arco al di sopra del canapé dove sono seduti i nonni e la zia. Le nostre valigie sono pronte, con dentro le cose a noi preziose o indispensabili nel caso fosse necessaria una fuga precipitosa.

Durante tali preparativi la situazione è peggiorata. Scoppi di proiettili e raffiche di mitragliatrici squarciano l’aria. Getto un’occhiata furtiva scostando un po’ un materasso, vedo soltanto i tedeschi che sparano e sparano. «Segno sicuro che gli americani sono ancora qui», mi dico per tirarmi un po’ su. Non abbiamo mangiato niente dalla sera prima ma solo il nonno ha fame. Io non riuscirei ad ingoiare nulla, non sento la fame, né la sete, né la stanchezza. Verso la fine della mattinata, gli abitanti della fattoria accanto, che sono tornati per mungere le mucche, approfittano di un momento di calma per farci portare un po’ di latte dal loro garzone. Il ragazzo ci dà anche notizie sulla battaglia: sembra che ci siano tanti tedeschi nei dintorni di Port (una frazione di Neuville che si trova dall’altra parte della strada maestra, lungo la palude, in direzione di Fresville) ma anche che nugoli di alianti continuino a scendere dal cielo. Non si sa se è vero o no, ma siccome è una buona notizia, vogliamo crederci.

Nel primo pomeriggio sono riprese le raffiche di mitragliatrice, molto più sostanziose di quelle della mattina. Colmo della sfortuna e dell’inquietudine: uno degli 88 mm austriaci si ferma davanti alla scuola. Ci rimettiamo sotto ai materassi. Il maledetto cannone entra in azione e spara contro Sainte-Mère. Getto uno sguardo di traverso dalla finestra, le granate sono impilate sull’ordigno, ne vedo una grande catasta. Un servente passa la granata a un altro che la inserisce. Sento il ticchettio della granata che scivola nella culatta e poi il colpo che parte. Gli artiglieri tedeschi si dimenano come demoni.

Ma ecco che gli aerei americani entrano in ballo. Sono dei piccoli aeroplani chiamati spie di artiglieria. Passano proprio sopra il cortile e così a bassa quota che a un certo punto distinguo nettamente la testa di un uomo nella carlinga. Ogni volta che passa sopra il cortile, invisibili mitragliatrici gli sparano contro una pioggia di proiettili. Ma questo sembra invulnerabile, drizza il naso e riparte verso Sainte-Mère senza contrattaccare. Lo ammiro ma non capisco le sue mosse, quello che cerca di fare. Non ci metterò molto a capire e a sapere.

Miaaoo... Buum... I vetri vanno in frantumi. Una granata è appena caduta molto vicino. Non è una granata tedesca. Sono gli americani che rispondono al fuoco. Il loro piccolo aeroplano continua a passare sopra di noi e dopo che è passato... Miaaoo... Buum... Quindi è lui che individua la posizione del cannone tedesco e dirige il tiro! Guai per noi.

Mi accovaccio contro la mamma sotto il materasso, stringo la mano nella sua. Anche la nostra cagnolina, di solito tanto turbolenta, resta immobile e silenziosa vicino a me. I miagolii delle granate si moltiplicano e diventano sempre più frequenti. Tra il sibilo e lo scoppio ormai intercorre sempre meno tempo. Ad ogni lancio le nostre spalle si curvano e i muscoli si irrigidiscono come per parare il colpo.

Buuuum! Un’esplosione assordante. Non sento più niente. La granata è caduta così vicino che non ne ho nemmeno sentito il sibilo. Appena mi riprendo dallo stupore iniziale, lancio veloce uno sguardo dalla finestra. La casa del signor Dumont è scomparsa in mezzo a una nube di polvere e fumo. Un attimo di silenzio… e vedo il signor Dumont e i suoi tre bambini che attraversano il cortile correndo. Entrano. Tremano e sono lividi di paura. Allora usciamo da sotto i materassi per accoglierli. Una granata ha appena attraversato la loro casa.

Il nostro piccolo gruppo viene preso dal panico. La mamma prega per combattere la propria angoscia. La nonna fa dire le preghiere ai bambini: «Mio Dio, proteggici! Signore, abbi pietà di noi!» Non appena la litania rallenta sulle loro labbra, sono io che la rifaccio partire perché, sebbene non ci creda tanto, questo è il modo migliore per mandar via la paura dei bambini e degli adulti. «Santa Margherita, patrona di Neuville, proteggici… O Maria, concepita senza peccato…» Anche i tedeschi sembrano un po’ allarmati. Li sento parlare, camminare, correre. Alcuni entrano nel corridoio di casa, salgono in soffitta, sparano dall’abbaino. Nemmeno ci vedono, ci gettano soltanto passando sguardi fugaci, un po’ folli… Sapendosi scovati, alla fine hanno spostato il cannone. Troppo tardi, ahimé, per noi!

La finestra si spalanca violentemente con un fracasso terribile in cui il rumore dei vetri rotti non è che una nota leggera nello spaventoso tumulto. La casa scricchiola in modo sinistro e sembra sconquassarsi sotto l’effetto di un soffio infernale carico di pulviscolo e di un odore di polvere da sparo che ci prende alla gola. Io ormai non ho neanche più paura. Nessuna sensazione. Vuoto assoluto. Ho cessato di esistere. Quando si viene uccisi sul colpo, forse è così che si passa alla vita eterna. La prima sensazione che provo quando ritorno alla vita è la lingua della mia cagnolina, tiepida e umida, che mi lecca il naso.

Non possiamo calcolare subito l’entità dei danni. Restiamo sotto i materassi poiché le raffiche delle mitragliatrici hanno ripreso più forti di prima. È sera quando tutto si calma e possiamo uscire da quel caos. Constatiamo allora che il cortile è pieno di macerie, che le porte e le finestre sono state divelte, che i muri sono ancora in piedi e che i tedeschi sono sempre lì.

La notte tra il 7 e l’8 giugno: un soldato sperduto della Wehrmacht

Alla fine di quella terribile giornata, di sera, avviene un incontro molto particolare che, per quanto mi riguarda, non dimenticherò mai. D’un tratto l’alta sagoma di un giovane ufficiale tedesco appare nel riquadro della porta. Il suo volto è livido e i pochi capelli che escono dal casco sono incollati alla fronte. Batte i denti ed è scosso da un tremore che non riesce a controllare. Si siede davanti a me e alla mamma, di fronte alla finestra. Provo a farlo parlare ma non sembra capire nemmeno una parola di francese. Insisto, cercando di ricordare le poche parole di tedesco che conosco, per far partire la conversazione. Gli chiedo: «Americani kaput?» Fa segno di no con la testa. Mi sforzo di nascondere la mia contentezza e, fingendo una certa disinvoltura, continuo: «Americani Sainte-Mère-Église?» «Ya»24Trascrizione inesatta dell’avverbio di affermazione tedesco «ja»., risponde il tedesco. Insisto ancora: «Americani here?» Il giovane fa spallucce come per dire che non ne sa niente.

Piano piano si sta riprendendo dallo spavento. Si toglie il casco e mi mostra tutti i bernoccoli che ci sono. Si dà una pettinata e si mette il berretto militare. Poi da una tasca estrae i guanti e un pacchetto di sigarette… americane. Me ne offre una che prendo e fumo; è la prima e una delle poche sigarette che abbia mai fumato in vita mia ma ci sono dei momenti in cui è assolutamente necessario fare qualcosa per calmarsi.

Il tedesco guarda intensamente verso la finestra spalancata, lo sguardo fisso e le orecchie tese. Io sento soltanto i colpi delle mitragliatrici che sembrano rispondersi a vicenda. Le prime sparano vere e proprie raffiche a ritmo sostenuto: «Deutsch», dice l’ufficiale. Le altre rispondono con colpi più netti e separati: «Americani», precisa. Chiedo: «Wieviel Meters?»25«A quanti metri?». Vengo a sapere che le mitragliatrici americane che sentiamo sono soltanto a un centinaio di metri da noi. Esulto e traduco a mia madre quello che lui mi ha appena detto. Due esplosioni successive sovrastano il rumore dei proiettili e delle granate. Poi, a ritmo regolare, partono alcuni colpi dai dintorni di Beaudienville, un paesino che si trova dalla parte del mare, in fondo alla stradina che, partendo dalla chiesa di Neuville, passa davanti alla canonica. Il soldato tedesco, che continuo a seguire con lo sguardo, trasale. Chiedo: «Was ist das?»26«Che cos’è?» – «Carri armati americani», mormora.

Subito mi sento invadere dalla gioia, nonostante le esplosioni che si moltiplicano all’infinito. Ritrovo la speranza, gli americani sono sempre molto vicini. Anche quel tedesco, come noi, sembra aspettarsi da un momento all’altro di vederli spuntare. Ma lui, che cosa aspetta esattamente? Che cosa conta di fare quando arriveranno qui? Da quando è con noi non abbiamo più visto l’andirivieni dei tedeschi nel corridoio. Sembra che sia rimasto solo. In un momento in cui fuori era tutto calmo, si è alzato ed è andato a fare un giro per la casa. L’abbiamo sentito spostare le pentole e le padelle nel retrocucina come se stesse cercando qualcosa da mangiare o da bere. Poi è salito in soffitta ed è ridisceso con un fucile mitragliatore in mano. Ma non lo teneva affatto come se volesse servirsene. Appena la vecchia zia ha visto l’arma, che lui aveva posato dapprima contro il muro del corridoio, gli ha fatto capire a gesti che doveva buttarla fuori. E lui, docilmente, è andato a gettarla nel fossato della siepe del giardino.

Con la sera è tornata anche una certa calma. Siccome il pericolo sembra essersi allontanato, usciamo da dietro i materassi, ma ne lasciamo uno a coprire il riquadro della finestra perché non fuoriesca la luce della lampada a petrolio, meno sinistra del lumino da notte e delle candele. La piccola Dumont si è finalmente addormentata e il nonno russa nella stanza accanto. Abbiamo anche provato a mangiare qualcosa ma è come se avessimo la gola chiusa, non siamo riusciti ad ingoiare niente di solido, abbiamo appena potuto bere un po’ del latte che ci aveva portato al mattino il garzone della fattoria.

Adesso è notte e sono almeno tre ore che il tedesco è in casa nostra… con noi. Passano alcune ore, quasi estranee a questa guerra che è così vicina. È strano, ma ormai il nostro tedesco è diventato così umanamente vicino a noi che non lo percepisco più come un nemico. Sono addirittura sicura che nel profondo del cuore mi auguro che non gli succeda niente di male e che, se mi fosse dato di fare qualcosa per salvargli la vita, lo farei. Riesco a capire che lui si aspetta che arrivino gli americani e lo facciano prigioniero: è disarmato, mi fa vedere che il caricatore della sua rivoltella è vuoto, ha scaricato i proiettili nella pentola del retrocucina quando è andato a fare la sua giratina per casa.

Il rumore delle mitragliatrici adesso è più lontano, soltanto spasmodico. La notte ora è quasi calma. All’improvviso, l’uomo sembra aver preso una decisione. Mi spiega che cercherà di raggiungere i suoi attraverso delle stradine che lo condurranno a Emondeville in direzione di Montebourg passando per Houlbecq, Saussetour, le Buisson. Ed è da là infatti che i tedeschi stanno sparando adesso.

Il nostro «ospite» ci dà la stretta di mano dell’addio e, come l’americano dell’altra sera, sparisce anche lui nella notte, verso il proprio destino.

La mattina dell’8 giugno: ecco l’alba!

Finalmente! Mai notte di giugno mi era sembrata tanto lunga. Non vedo l’ora di mettere il naso fuori per constatare se gli americani ci sono sempre, per sapere cosa è successo ai vicini e agli amici e vedere che cosa resta del nostro paesino.

Intorno a me soltanto orrore e desolazione. Nel cortile della scuola c’è una confusione indescrivibile di resti di ogni genere. I pezzi di una bicicletta schizzata fin qui sono ora sparpagliati ovunque: ruote storte di qua, pneumatici lacerati di là, il parafango da un’altra parte e qualcosa che somiglia al telaio sul tetto del portico. La vista di una massa sanguinante mi fa indietreggiare con un brivido di orrore. Ma, reagendo quasi subito, mi avvicino. Non è carne umana. Qua e là scorgo dei ciuffi di pelo baio, si tratta sicuramente di uno dei cavalli che tiravano la bagnarola dei tedeschi. Un secondo cavallo, ferito, passa nitrendo di dolore. Il sangue gli è colato in lunghi rivoli sul corpo e gli si è coagulato sui fianchi.

Questo è soltanto l’inizio di una serie di macabri spettacoli. Allo steccato del cortile c’è un soldato tedesco in piedi, un po’ piegato all’indietro, come se stesse per cadere supino. Sembra immobilizzato nell’atto di cadere, con il fucile sempre in mano. È strano! Mi avvicino un po’ di più, gli parlo. Lui non risponde, resta lì pietrificato. Guardo più da vicino: il suo volto è già verde. La rigidità cadaverica l’ha colto in piena azione e così velocemente da non lasciargli nemmeno il tempo di cadere.

Lì vicino, del nostro 88 mm austriaco di ieri è rimasto solo un ammasso di ferraglia. Una granata è caduta in pieno sul carro delle munizioni. Il grosso della carcassa è accasciato contro l’argine della siepe, di traverso al fossato27 In questa zona della Manche, il paesaggio rurale è quello tipico del «bocage» normanno in cui frutteti, campi e pascoli sono circondati da alte siepi o esili boschetti. Qui le stradine campestri sono spesso incassate. Tra la siepe e il sentiero incassato, troviamo un argine più o meno alto che scende nel fosso o direttamente sul ciglio della strada. Abbiamo quindi molti terrapieni e pochi muretti a secco. Dato poi il clima umido e temperato, tali argini sono sempre erbosi [NdT]. . Altri resti sono sparsi in tutto il terreno circostante: grandi cingoli strappati, lamiere contorte, armi e caschi sparpagliati e, in mezzo a tutto questo, giacciono una decina di corpi, molti dei quali spaventosamente mutilati. Accanto a uno di loro ci sono lettere e foto: una casetta con dei bambini che giocano, una giovane donna. Qua e là, bende e fasciature macchiate di sangue. Capisco il terrore del giovane ufficiale che si era rifugiato da noi ieri sera.

La fattoria dietro la scuola è semidistrutta. La maggior parte della case è danneggiata: tetti bucati come colabrodo, vetri rotti. Grandi rami e addirittura interi alberi si sono spezzati e sono caduti in mezzo alla strada. Dagli alti faggi dietro ai quali, ieri, era nascosto il cannone tedesco, adesso penzolano brandelli di stoffa schizzati fin lassù. Rimarranno lì a marcire per tutta l’estate e per tutto l’inverno, finché gli ultimi resti si sfilacceranno al vento dell’oblio.

Ma, a quanto pare, i tedeschi non ci sono più. Avviandomi sulla stradina della scuola, vedo sbucare da dietro le siepi che la costeggiano dei grossi caschi rotondi, quelli degli americani. Provo a intavolare una conversazione con i soldati ma li sento reticenti, preoccupati, sospettosi. In lontananza si sentono ancora i miagolii delle granate, pur sempre pericolosi. Un soldato mi dice e mi fa segno di tornare indietro e di rientrare in casa.

Quello che è successo di notte al castello

Tre paesani che incontro allora mi danno ulteriori informazioni. Non ci sono state vittime tra gli abitanti del nostro villaggio ma al castello è stata una notte particolarmente movimentata. Tra i tedeschi c’erano molti feriti, i loro cannoni sparavano senza sosta su Sainte-Mère-Église e ricevevano in risposta i tiri degli americani. Il castello è diventato l’infermeria dei tedeschi, i soldati moribondi, mutilati o storpi vengono adagiati su divani e poltrone. Il tavolo della sala da pranzo, al quale avevano messo le prolunghe in previsione di un pranzo di nozze che avrebbe dovuto tenersi il sabato dopo, serve da tavola operatoria. Il sangue cola sul parquet e sui bei tappeti del salone dai toni blu e rosati. Le tende delle finestre sono tirate giù per farne dei lacci emostatici. Ad un certo punto i feriti sono così tanti sul tavolo da farlo crollare insieme a quel carico di esseri umani. La vasta dimora risuona ovunque di grida e di gemiti.

In mezzo a quella terribile confusione, un ferito diverso dagli altri ha attirato l’attenzione di alcuni domestici del castello. Era un americano, un paracadutista, nemmeno troppo «malconcio». I tedeschi, presi dai problemi urgenti, l’avevano lasciato sul pianerottolo dello scalone. Seduto proprio davanti alla grande vetrata, poteva vedere tutto quello che succedeva fuori. «Ascoltava attento i rumori», hanno raccontato i domestici, «per cercare di coglierne la provenienza e la natura. Il suo volto esprimeva sofferenza e piacere allo stesso tempo. Quando gli siamo ripassati davanti, dopo essere stati a cercare un po’ di provviste nelle cucine, ci ha fatto un gesto di trionfo, ma con una certa discrezione per non farsi vedere dalla sentinella tedesca, indicandoci col dito qualcosa fuori che però noi non abbiamo fatto in tempo a vedere perché la sentinella si è girata.» Quella cosa fuori, era l’arrivo dei carri armati americani, che anche il tedesco a casa nostra aveva sentito arrivare.

In effetti stavano sopraggiungendo dalla strada di Beaudienville. Più di una dozzina, in fila indiana, facevano fuoco da tutti i loro cannoni distruggendo gli 88 mm austriaci che rimanevano. Per i tedeschi del castello e di Neuville, questo era stato il segnale di un ripiegamento repentino in direzione di Emondeville e Montebourg. La mattina dell’8 giugno, nel castello rioccupato dagli americani, sono i feriti tedeschi ad essere ora prigionieri. Il loro ufficiale medico non li ha abbandonati, e cura con uguale abnegazione gli uni e gli altri.

Il pomeriggio dell’8 giugno: l’esodo degli abitanti di Neuville verso Ecoqueneauville

Pensavamo che nella nostra zona la battaglia fosse ormai definitivamente conclusa. Gli americani, sempre più numerosi, consolidavano le posizioni sul terreno riconquistato. Avevamo l’impressione che la vita potesse quasi riprendere il suo corso abituale e che la guerra adesso fosse il problema di altre persone, in contrade lontane.

Ma ecco che nel primo pomeriggio due americani vengono a dirci che dobbiamo andarcene perché hanno minato tutti i campi circostanti in previsione di un contrattacco dei tedeschi. Cerco di convincerli che con tre bambini e tre anziani non è così facile andare via. E poi andare dove? Il soldato mi spiega in inglese che non ci costringeranno a partire ma che sarebbe comunque una follia rimanere. Poi mi indica un percorso verso Sainte-Mère-Église: non la strada statale, ancora sotto il tiro dell’artiglieria tedesca, ma attraverso i campi, lungo le siepi, né troppo vicino né troppo lontano da queste ultime. Mi spiega inoltre dove sono piazzate le mine nel campo di fronte, che dovremo attraversare per primo. Poi aggiunge: «Vi sto svelando un segreto militare.»

Bisogna dunque partire. Raccogliamo in fretta un po’ di vestiti, per fortuna le valigie erano già pronte per una simile evenienza. Il mio grosso cane saltella festoso credendo che lo porteremo a fare la passeggiata. Ci dice l’ufficiale: «Tenetelo stretto, che non faccia saltare una mina facendo saltare in aria anche voi, e camminate in fila indiana, a una certa distanza gli uni dagli altri.»

Apro io la fila insieme al cane. La mamma mi segue. Dietro vengono i piccoli Dumont, prima il ragazzino, subito dopo la sorella maggiore con la sorellina per mano. Poi la vecchia zia, con la cagnolina al guinzaglio, e la nonna. Chiudono la fila il signor Dumont e il nonno con i suoi ottantaquattro anni. Ognuno, anche la più piccolina, porta un bagaglio adeguato alle proprie forze. L’angoscia e la tristezza che ci pervadono, insieme al desiderio incalzante di trovare al più presto un rifugio, ci rendono pressoché insensibili agli orrori che vediamo durante il cammino.

Nei campi giacciono intere greggi che diffondono un odore pestilenziale. I ventri gonfi come otri sono preda di sciami di mosche che brulicano sulle pelli lacerate. Un cavallo sventrato agonizza sull’erba sporca del suo stesso sangue. Un puledro nitrisce tristemente cercando di succhiare il latte della mamma ormai morta. Alcune mucche, che non sono state munte, muggiscono in modo lugubre. Cerco di distogliere lo sguardo. Non voglio più vedere queste cose. Camminiamo come in un incubo, tanto velocemente quanto ce lo possono permettere le gambe del vecchio nonno e della piccola Dumont. D’un tratto, saltando una breccia, sento qualcosa di molle sotto i piedi e, mentre mi giro per tendere la mano a mia madre, scorgo due cadaveri nel fossato. Ci sono appena saltata sopra senza vederli.

Ecco un piccolo gruppo di case. Forse potremo farvi una breve sosta. Ma la guerra è passata anche da qui. Le case sono deserte. In una, la tavola ancora apparecchiata ci fa pensare che le persone siano partite in fretta e furia e questo non ci rassicura nemmeno un po’. Un tedesco è steso bocconi davanti a una porta. Dappertutto intorno cadaveri di soldati, di pollame, quello di un cagnolino. Di tanto in tanto sentiamo ancora sparare sopra di noi.

Vediamo un altro paese, Beauvais. Ci incamminiamo a fatica nella sua direzione. Stesso spettacolo desolante: case vuote, bestie morte. Ma voci umane che hanno la nostra stessa parlata fanno svanire l’incubo. È un gruppo di contadini che stanno ritornando alle loro case per recuperare cose utili o preziose, mungere le mucche e prendersi cura del bestiame. Una volta fatto, ripartiranno verso Ecoqueneauville. Ci dicono: «Da quelle parti ci sono molti americani, ne sbarcano in continuazione. È più sicuro rispetto a qui.» Poi ci consigliano di seguirli. Non so più che direzione prendere per andare a Sainte-Mère e penso che sia più prudente e sicuro rimanere insieme agli altri, quindi ordino alla mia piccola truppa: «Andiamo. Seguiamoli.»

Seguirli però è più facile a dirsi che a farsi, sono quasi tutti piuttosto giovani e la paura mette loro le ali ai piedi. Per noialtri, con i bambini e gli anziani, è un’altra cosa. Presto rimaniamo così indietro da non vederli nemmeno più, il che pone il problema della strada da prendere poiché faccio fatica a trovare la direzione di Ecoqueneauville. Procediamo a occhio sempre più lentamente. Il nonno e la piccola Dumont chiedono spesso quanto manca. Alla fine il povero nonno, allo stremo delle forze, si lascia cadere e ci dice: «Continuate senza di me, tornerete a cercarmi domani.» Ben inteso, non se ne parla proprio di lasciarlo lì da solo. Vado in perlustrazione nei dintorni sperando di trovare in una fattoria una carriola per trasportare il nonno. Per fortuna, trovo molto più di una carriola: un carretto, quello del nipote della signora Poussard che si trova nei paraggi. La mia idea della carriola lo fa morire dal ridere. Attacca il cavallo e partiamo alla volta del nostro gruppetto che non si aspettava di rivederci così presto e che è stupito di vedermi ritornare con un tale equipaggio. Le due bambine salgono con i nonni e i bagagli. Io e la mamma continuiamo a piedi verso Ecoqueneauville con il resto del gruppo e i due cani.

9-10-11 giugno: sfollati

Ecoqueneauville, piccolo comune di cento e qualcosa abitanti, accoglie al momento molti sfollati venuti da Sainte-Mère-Église e dai dintorni. Le persone ci accolgono con incredibile cordialità e questo calore ci fa dimenticare la tristezza dell’esodo. La maestra invita me e mia madre a sistemarci a casa sua, dove ha anche uno stanzino per il nostro cane. Il signor Dumont e i suoi tre ragazzi staranno dal fattore che ci ha coraggiosamente portato fin qui. I nonni invece saranno ospiti di una coppia dall’altra parte del paese. La vecchia zia si sistemerà vicino a loro, a casa di una signora che vive sola con la figlia. Siccome siamo in campagna, i rifornimenti non mancano. Ci portano uova, latte e maiale a profusione e, in mancanza di pane, le galettes de Sarrasin28 Si tratta di «crêpes» salate fatte con farina di grano saraceno [NdT]. .

Dopo esserci rifocillati, speriamo di poterci riposare, magari dormire un po’. Dolce illusione. Il villaggio brulica di americani e, senza tregua, le truppe dirette al fronte sfilano lungo la strada che viene dal mare. Sotto gli alberi, nei campi di meli, sono ammassate e nascoste le munizioni. Scesa la notte, siamo appena andati a letto che un ronzio di aerei inizia a turbare il silenzio. Subito, si scatena la contraerea americana appostata vicino a noi. La scuola vibra da tutte le parti come se stesse per crollarci addosso.

La maestra e i suoi due figli, io e la mamma, ci alziamo di scatto e ci vestiamo in fretta e furia, alla rinfusa, giacché il panico confonde cose e gesti. La mia collega dice: «Cerchiamo di arrivare alla fattoria di fronte, hanno un rifugio sicuro sotto la scala.» Mentre percorriamo la stradina per andarci, vediamo con spavento un aereo in fiamme che scende sopra le nostre teste. Per un attimo abbiamo l’impressione che ci cadrà addosso. Invece no, si schianta in un campo vicino, esplode e brucia completamente: il tutto in men che non si dica. Attraversiamo l’aia della fattoria. Bisognerebbe correre ma la mamma nella fretta si è infilata le grandi babbucce del tedesco che aveva alloggiato da noi a scuola e per questo ora ha difficoltà a camminare. Le raffiche sono così violente che per un attimo ci ripariamo sotto un grande carro in un capannone della fattoria. Ma questo rifugio non è affatto sicuro. Un ultimo balzo e arriviamo finalmente alla porta della casa colonica. Bussiamo con foga: «Aprite! Aprite, presto!» La porta si apre subito. Che sollievo!Ancora una volta salvi!

Nel salone del pianterreno, i fattori hanno sistemato tutti i materassi per terra. Ci sono almeno una dozzina di sfollati dei dintorni, più gli abitanti della casa che hanno disertato le camere ai piani superiori. C’è anche un piccolo letto pieghevole su cui è coricata una vecchia signora di 90 anni. Sua figlia, che di anni ne ha 70, è stesa accanto a lei. La vecchia signora non si rende per niente conto di quello che sta accadendo, né di quanto sia tragica la situazione. Quando la raffica della mitragliatrice si fa più intensa, tutti si ammassano sotto la famosa scala ma la vecchia signora non è affatto contenta di doversi alzare. E dato che le persone parlano a voce alta, si arrabbia e dice: «State zitti, alla fine vi sentono!» Nonostante la fifa, questo ci fa ridere. La fifa in effetti ce l’abbiamo e ci fa fare largo uso del vaso da notte destinato alla vecchia signora, che si lamenta: «Vengono tutti a farla nel mio vasino! Tra un po’ chissà che puzza! Potrebbero però anche andare a fare i bisogni fuori… dove li farò io quando il mio vaso sarà pieno?» Come non ridere, malgrado l’arsenale a pochi passi da noi, sotto i meli, che potrebbe saltare in aria alla prima bomba tedesca?

Ogni notte, durante il soggiorno a Ecoqueneauville, si ripete quasi la stessa storia, con gli aerei tedeschi che continuano a minacciarci. Per fortuna le giornate sono più tranquille. Ci sono un sacco di americani e sono chiamata a fare da interprete. Ci sono quelli incaricati di ritrovare i cadaveri e quelli che verranno a metterli sui camion per portarli al cimitero militare, da loro aperto vicino a Sainte-Mère-Église. I contadini mi spiegano dove si trovano i corpi e io ci porto gli americani. Ogni giorno si contano nuovi cadaveri nella campagna. Spesso è l’odore che ci conduce da loro. Alcuni sono periti a causa di orribili ferite, altri morti invece sembrano dormire. In un posto, vicino a una casetta isolata, un americano e un tedesco sono morti uno di fronte all’altro, addossati all’argine della siepe, sui lati opposti della strada. Impugnano ancora le armi. Con tutta probabilità, si sono uccisi l’un l’altro contemporaneamente.

Quando gli americani arrivano, frugano il morto; lo girano e lo rigirano, gli tolgono l’orologio, gli anelli, i soldi, i documenti e mettono tutto dentro a un sacchetto, leggono la placca d’identità e scrivono il nome del soldato deceduto sul pacchetto che contiene le sue reliquie. Fra qualche tempo, là in America, una donna, dei genitori, dei figli, sapranno che non rivedranno mai più il loro GI29Secondo l’Oxford English Dictionary, si tratta della sigla di G overnment (or G eneral) I ssue: nome generico attribuito ai soldati americani.. Ecco cos’è la morte, ecco cos’è la guerra.

E noi, in mezzo a tutto ciò, siamo un po’ come in vacanza. Il tempo è splendido e la natura in festa sembra prendersi altamente gioco della carneficina. In questo periodo dell’anno tutta la campagna è un tripudio di foglie e di fiori e l’allegra moltitudine degli uccelli popola le rinnovate fronde degli alberi. Gli abitanti del villaggio, e soprattutto gli sfollati che non hanno niente da fare, vagano in questo incredibile scenario. Ormai rilassati, passeggiamo, chiacchieriamo, ognuno racconta quello che ha visto o sentito, quello che sa o crede di sapere. Andiamo in pellegrinaggio sui luoghi degli scontri e ognuno espone le proprie teorie sulla strategia dei combattimenti.

12 giugno e giorni successivi: ritorno a Neuville

Ora che gli scontri hanno luogo piuttosto lontano da qui, prendiamo in considerazione l’idea di ritornare a Neuville, a casa nostra. Ma c’è un interrogativo che ci assilla: esiste ancora una «casa nostra»?

Il nipote della signora Poussard, che era già stato tanto gentile, ci aiuta di nuovo riaccompagnando i nostri vecchi sul carretto. Il signor Dumont ha trovato lavoro come bracciante agricolo a Ecoqueneauville e rimane lì con i suoi figli. Per ora è la cosa migliore da fare visto che la loro casa è ridotta in uno stato pietoso. Io e la mamma ci incamminiamo insieme agli altri sfollati alla volta di Sainte-Mère-Église. Dopo Sainte-Mère rimaniamo soltanto io e lei, tra i civili, a camminare sul ciglio della via maestra percorsa di continuo da convogli militari. Sebbene di tanto in tanto i soldati si rivolgano a noi con fare cordiale, angoscia e senso di solitudine non ci abbandonano. Cessano solo quando arriviamo a Neuville, con l’immenso sollievo di ritrovare la scuola ancora in piedi e noi di nuovo insieme.

Ora è qui, a Neuville, che arrivano gli sfollati, in particolare quelli scappati da Montebourg in fiamme30Sulla strada di Cherbourg, Montebourg riveste un ruolo di primaria importanza nella lotta per l’accesso al Cotentin settentrionale. Numerosi bombardamenti colpiscono tale borgo, in particolare nei giorni 8, 10 e 12 giugno. Bombe al fosforo e granate della marina trasformano Montebourg in un braciere. Se alcuni abitanti si rifugiano nell’abbazia, molti altri escono dalle loro cantine per tentare la via della fuga.. Veniamo a sapere che anche Valognes è stata in gran parte distrutta e che ci sono tantissime vittime tra i civili31Tre bombardamenti il 6, 7 e 8 giugno annienteranno Valognes, la «piccola Versailles normanna». Le bellezze della città saranno ridotte in polvere. Si conteranno circa 300 morti.. Nei giorni successivi la nostra vita si riorganizza in mezzo alle truppe americane, in un alternarsi di notizie vere e false. Sulla strada maestra passano spesso dei camion carichi di morti avvolti in sudari sporchi di sangue, macabri pacchetti che vengono miseramente sballottati sulle strade sconnesse.

La battaglia è sempre molto cruenta poco lontano da qui. Tramite Utah-Beach32Nome in codice dato alla prima spiaggia dello sbarco verso ovest, Colleville-sur-mer., gli americani ricevono continui rinforzi in materiale e uomini. Consolidano ed ampliano la testa di ponte di Sainte-Mère-Église in direzione di Jourbesville, Saint-Sauveur-le-Vicomte, la Haye-du-Puits. A partire dal 19 giugno attaccano la regione di Montebourg per accentuare la pressione su Cherbourg, che cadrà nelle loro mani il 24 giugno33Gli americani prendono le alture di Cherbourg il 23 giugno. Due giorni più tardi, il 25, avranno luogo degli scontri in città. Il generale von Schlieben e l’ammiraglio Hennecke capitoleranno il 26, senza ordinare il cessate-il-fuoco generale alle loro truppe, trincerate. L’arsenale resisterà fino al giorno seguente..

Andiamo spesso all’osteria della signora Poussard. In realtà si tratta di un vero e proprio ufficio stampa, a volte le notizie vi sono addirittura affisse. Ed è lì che torno a ricoprire il mio ruolo di infermiera occasionale. Durante un bombardamento in cui ha perso la mamma e il fratello, la nuora della signora Poussard è stata colpita da una piccola scheggia di granata nella coscia. Ne parlo con un maggiore americano che è di passaggio nell’osteria. Lui mi dà un sacchettino di polvere bianca da mettere sulla ferita. Un prodotto miracoloso, a noi ancora sconosciuto: la penicillina. «Fatele degli impacchi per fare uscire la scheggia», dice il maggiore. Applico gli impacchi. Tolgo qualche lembo di carne con una pinzetta. Ma la scheggia, ostinata, non vuole venir fuori. La sento a fior di pelle. Allora con un temperino ben appuntito e accuratamente sterilizzato col fuoco, mi improvviso chirurgo e faccio una piccola incisione a forma di croce. E la scheggia alla fine esce, con un po’ di sangue e di pus. Resta solo da disinfettare la ferita con un bel po’ di alcol, senza farmi impressionare dai gemiti della paziente, e poi da cospargerla con la polvere bianca dell’americano. L’indomani la giovane donna può già camminare e la ferita inizia a cicatrizzarsi.

Così, giorno dopo giorno, man mano che la guerra si allontana, le giornate perdono un po’ della loro pregnanza storica e noi un po’ di quella febbrilità eroica che ci avevano dato la vicinanza del pericolo e la necessità di affrontarlo. Per alcuni mesi viviamo in una situazione un po’ particolare, ancora una sorta di Occupazione, non più quella del nemico ma degli alleati, dei nostri liberatori. Ed è interessante ricordare questo nuovo tipo di «convivenza».

Alcuni «effetti collaterali» del passaggio delle truppe americane nelle nostre campagne

La presenza delle truppe americane nella nostra zona sconvolgerà abbastanza la mentalità contadina normanna. Tanto più che gli «occupanti» sono amici, dei liberatori, e non dobbiamo prendere le distanze da loro.

Nel campo di fronte alla scuola è stato montato un ospedale di campagna. La maggior parte dei pazienti dei dottori americani sono vittime, civili e militari, degli ordigni esplosivi o degli incidenti stradali. Occasionalmente, anche gli abitanti del villaggio approfittano di cure gratuite, il che aiuta a creare rapporti amichevoli. Più di una volta succede che mando dagli americani persone della campagna circostante conosciute durante le mie visite a domicilio per le iniezioni. Essendo ancora in vacanza, vado spesso all’ospedale per fare da interprete o anche solo per fare due chiacchiere e questo mi permette di familiarizzare con l’inglese e con l’accento americano. Spesso addirittura uno dei dottori, personaggio simpatico di origine italiana e per di più violinista, viene a casa nostra a passare la serata.

Accennavo prima ai civili rimasti vittime degli esplosivi. Una delle particolarità di quel periodo fu infatti l’abbondanza di «oggetti trovati» un po’ particolari: fucili, pistole, mitragliatrici, granate, piccole bombe ad alette, ecc. C’era di tutto nei campi, nelle siepi, nei fossati. Che tentazione per i nostri ragazzi, e anche per gli adulti! Mi ricordo di un vicino che stava rientrando a casa con un sfilza di grosse cartucce di colore giallo pallido che si potevano facilmente scambiare per quelle che servivano a dare lo zolfo alle botti. E infatti contava proprio di farci questo, fiero com’era della sua scoperta. Ma io gli gridai: «Cretino! Non si vede che è dinamite?»

Un altro effetto molto particolare di quella situazione è ciò che definirei la banalizzazione della morte e più precisamente del cadavere. Ne avevamo visti tanti, e i primi giorni tanti ne rimanevano sparsi qua e là che una sorta di abitudine ci stava desensibilizzando. Mi ricordo di un ragazzino di 14 anni di indole dolce e sensibile che, accompagnandomi a Ecoqueneauville, lasciava trapelare una specie di eccitazione morbosa per quelle macabre scoperte quando mi chiamava a vedere le varie espressioni rimaste sui volti dei cadaveri.

Vicino a casa, lungo il campo che fa angolo tra la via statale e la nostra stradina, avevo notato che in un posto preciso si sentiva un puzzo molto forte. Era troppo facile indovinare di che cosa si trattasse ma non avevo il coraggio di andare a vedere dall’altra parte della siepe. Un giorno vedo là due dei miei discoli che mi chiamano: «Signorina, c’è un crucco nel fosso!» Uno gli ha già preso il portamonete e ora cercano insieme di prendergli anche il portafoglio. Mi informano che un terzo ha tolto le scarpe al morto ed è andato a lavarle, dato che erano piene di vermi.

Mi ricordo anche di Pecata, il becchino, che un giorno sentivo «imprecare» dietro la siepe di un campo, vicino alla chiesa. Mi avvicino, incuriosita, e lo vedo con un piede sulla pancia del cadavere di un tedesco, inarcato sull’altra gamba. Sta cercando, con tutte e due le mani, di togliere gli stivali al cadavere. La mia presenza non lo disturba minimamente, per cui mi dice, continuando a tirare forte per giungere al proprio fine: «C’ha i piedi rigidi, ‘sto scemo! Non ce la faccio a scalzarlo!»

Come si può vedere, l’abitudine alla morte dà origine a un’usanza poco allettante: il saccheggio dei cadaveri. Uno dei miei vicini, un uomo ricco che era stato precettato per scavare delle tombe, una sera se ne torna con due paia di scarpe che gli penzolano al collo legate coi lacci. Le ha tolte ai morti. Mi fa vedere con aria soddisfatta come sono belle, di vera pelle e quasi nuove. Cinismo o incoscienza, cupidigia o stupidità, non so.

Conseguenza frequente di questo tipo di saccheggio: il baratto. In questi mesi sono spuntati piccoli e frequenti mercati «neri». Anche i miei alunni, quando la scuola ricominciò, a volte la marinavano per andare a vagabondare tra gli accantonamenti. Per curiosità, certo, ma anche alla ricerca di questo o quello. È che i soldati della ricca America offrivano tante cose mai viste prima o di cui eravamo stati privati dalle restrizioni della guerra. In cambio noi avevamo un oro liquido i cui effetti furono più volte disastrosi: il calvados34 Acquavite tipica della Normandia, ottenuta dalla distillazione del sidro estratto da precise varietà di mele secondo metodi tradizionali tramandati da secoli [NdT]. .

Lo choc più forte, rispetto alle nostre abitudini austere o quantomeno riservate e discrete in materia di sessualità, fu la scoperta di una disinvoltura in campo sessuale niente affatto discreta.

Sotto forme brutali. Ci furono stupri, aggressioni, con le truppe d’assalto accantonate e in circolazione un po’ dappertutto, non era prudente per una donna o una ragazza avventurarsi da sola in posti isolati35È molto difficile quantificare le brutalità commesse dalle truppe alleate sui normanni. Da una parte, tutte le vittime non hanno sporto denuncia e dall’altra casi giudiziari di questo tipo vengono a volte insabbiati. Le autorità del resto censiscono unicamente i casi sanzionati dai tribunali. Michel Boivin riporta nei suoi studi, relativi alla Manche e all’intero periodo della guerra, il numero di 208 stupri e di circa 30 omicidi, commessi da membri delle truppe americane ai danni della popolazione.. Un giorno ne feci anch’io l’esperienza piuttosto comica, a ripensarci adesso. Sulla stradina tra la chiesa e il castello, vedo un americano in tenuta da aviatore, con il giubbotto di pelle foderato di montone. Sembra alle prese con una bicicletta appoggiata a un albero. Si rivolge a me e, senza voltarsi, mi fa segno di avvicinarmi. Tenendo la cagnolina al guinzaglio, perché a volte può essere aggressiva, mi avvicino pensando che quell’uomo abbia bisogno di un’informazione. Ma si gira di scatto e mi mostra il suo sesso. Nello stesso istante, però, la mia pestifera cagnolina salta verso l’oggetto per azzannarlo e abbaia ferocemente, una vera furia! Ho appena il tempo di tirare il guinzaglio perché non «abbocchi all’amo», in effetti dato lo slancio lo manca di poco. Scappo a tutta velocità malgrado la bestiola che continua ad abbaiare, decisamente troppo eccitata dalla cosa che l’altro, intanto, si è affrettato a rimettere a posto.

Scoperta di un altro genere! Una mattina la nostra vicina, la vecchia Hortense, arriva da noi sconvolta. Ha appena visto la sua capra, la sua povera capretta, venire violentata più volte di seguito da un gruppo di soldati: «Povera bestia, è rimasta completamente frastornata e rimbecillita!», ci dice Hortense e poi aggiunge indignata: «E non erano nemmeno dei neri!» Parola terribilmente rivelatrice di un razzismo inconsapevole di cui ebbi più volte occasione di constatare l’esistenza: soltanto i neri potevano fare cose così. Tutte le malefatte della truppa erano fatte ricadere su di loro. Razzismo che poteva rafforzare quello, brutalmente consapevole, di certi GI[’s]36 Si aggiunge di solito una esse preceduta da apostrofo (’s) per indicare il plurale di «GI» [NdT]. bianchi, come quelli che un giorno, dalla loro Jeep, ricoprirono di insulti due infermieri neri con cui stavo chiacchierando allo steccato della scuola.

L’abuso di libertà nei costumi assumeva anche forme meno brutali, più classiche, se così si può dire. Mentre aspettano l’arrivo delle «professioniste» dalle grandi città, questi signori vanno a caccia nelle nostre campagne. Un giorno, un’ambulanza americana si ferma davanti all’osteria della signora Poussard. Dato che lei non capisce che cosa vogliono, fa loro segno di chiedere a me che sono fuori a chiacchierare con una delle sue figlie. Questi mi spiegano di essere alla ricerca di «donne per il piacere». A parte due tizie che hanno servito ben bene i tedeschi, non vedo niente a Neuville che possa accontentarli. Ma loro insistono: non fa nulla se sono già state coi tedeschi! Mi obbligano a disegnare uno schizzo dell’itinerario da seguire e, dato che tergiverso un po’, uno di loro batte il piede per terra e mi dice: «Sbrigarsi! È urgente!» Credo di essere arrossita fino alla radice dei capelli.

È inutile dire che le «libertà» prese dai liberatori, a priori simpatici, non potevano non suscitare l’interesse e la curiosità dei ragazzotti del posto. Questo fu ben evidente quando, finite le vacanze, ritrovai i miei alunni (almeno quelli che ritornarono, poiché per alcuni il cioccolato, le sigarette, il caffè e il cinema degli Americani erano di gran lunga più interessanti della regola del tre semplice37È una regola di matematica. Secondo la definizione del Robert, si tratta di un «metodo che permette di trovare il quarto termine di una proporzione quando gli altri tre sono già noti». e delle norme di ortografia). Alcuni avevano fatto presto a scovare nella campagna gli ovili isolati, i capannoni di assi coperti di lamiera che, in mancanza di meglio, servivano da bordelli per i soldati. E i miei mattacchioni, a passi felpati, andavano a piazzare i loro occhi sulle fessure delle assi per… guardare. Una conversazione tra due di loro, ascoltata per caso nei gabinetti, mi fece capire che avevano visto molte cose e che la loro educazione sessuale ne era stata, per così dire, incredibilmente arricchita.

Un’altra volta, durante la ricreazione, vedo dei ragazzini che fanno a gara a soffiare dentro a certi palloncini. Erano dei profilattici inglesi. Se ne trovavano ovunque nei campi con altri ritrovati di arsenali «preservativi». Ordino ai ragazzi di buttare via i palloncini e dico che potrebbero scoppiar loro in faccia e renderli ciechi. I più piccoli si bevono la mia bugia ma vedo uno dei grandi, Lucas, che inizia a ridacchiare. Per evitare di essere contraddetta e di trovarmi in imbarazzo, lo faccio circolare dandogli un paio di ceffoni.

Così, con il passare dei giorni, si smorzava l’entusiasmo con cui avevo accolto la Liberazione. Così si sgretolava a poco a poco il mio piccolo codice di valori morali, un po’ ingenuo, è vero, un po’ fiore d’arancio. In certi giorni tutto mi sembrava marcio, pervertito. Ma per me era forse il passaggio alla maturità. La guerra con tutto il suo corteo di disordini e di paure mi faceva conoscere l’umanità come è, peggiore o migliore di quanto sembri. Ho visto uno spaccone del paese, un vero gradasso, abbandonare moglie e figli sotto i bombardamenti e scappare a gambe levate come una lepre, il codardo, così veloce da perdere quasi gli zoccoli. Ma ho anche visto la mia vecchia zia Rosalie che aveva passato la vita intera ad avere paura di tutto e di niente e che non sopportava nemmeno la vista di un coltello appuntito, piazzarsi valorosamente davanti a me per coprirmi con il suo corpo nel momento in cui il mitragliamento della scuola era diventato più pericoloso. Ci sono situazioni in cui gli istinti più repressi si scatenano e in cui le qualità più nascoste si rivelano in persone del tutto ordinarie in apparenza, situazioni in cui si rivelano incredibili atti di generosità o le più basse cupidigie e vigliaccherie. Ci sono situazioni che smascherano i disertori e fanno nascere gli eroi.

  • 1. Per quanto riguarda le Palmes Académiques si tratta del più antico riconoscimento istituito dal Presidente del Consiglio Edgar Faure il 4 ottobre 1955 per onorare le personalità eminenti nel campo dell’istruzione. Tale onorificenza trae origine dal titolo creato nel 1808 da Napoleone I, rivolto alle personalità di spicco che operano nell’ambito dell’Università [NdT].
  • 2. «Verdegrigi» è il soprannome dato ai soldati tedeschi in riferimento al colore dell’uniforme della Wehrmacht.
  • 3. L’autore si riferisce al discorso radiofonico del maresciallo Pétain che il 17 giugno 1940, soltanto tre giorni dopo l’ingresso dei tedeschi a Parigi, annuncia che il governo formatosi la notte precedente chiederà l’armistizio. Il celebre discorso «è con immenso dolore che, oggi, vi comunico che dobbiamo smettere di combattere» sarà seguito, qualche ora dopo, il 18 giugno 1940, dall’appello lanciato dal generale de Gaulle.
  • 4. Diffuso da Londra sulle frequenze della BBC il 18 giugno 1940, l’appello lanciato dal generale de Gaulle è poco ascoltato quello stesso giorno alla radio. Il passaparola e la stampa permetteranno di diffondere più diffusamente il messaggio alla popolazione francese.
  • 5. Cherbourg subisce un bombardamento da parte della flotta britannica la notte tra il 10 e l’11 ottobre 1940.
  • 6. Il 24 luglio e il 30 settembre 1941 la città viene colpita dalle bombe inglesi che provocano la morte di numerosi civili e la distruzione di alcuni edifici, in particolare il 30 settembre nella rue Tour Carrée.
  • 7. Donne, bambini e anziani sono colpiti da tali ordinanze di sfollamento che entrano in vigore nel 1943.
  • 8. Le autorità tedesche stabiliscono una zona vietata, lunga una decina di chilometri, in particolare sulle coste della Manica e dell’Atlantico. Dopo aver fatto sfollare donne, anziani e bambini dall’agglomerato urbano di Cherbourg, sarà poi il turno dal marzo 1944 di tutte le persone ritenute non utili. Agli «inutili», così soprannominati in quell’epoca, si unirà gran parte della popolazione rimasta in città per timore dei bombardamenti che, nella primavera del 1944, andavano intensificandosi.
  • 9. Gli Alleati designano il 6 giugno 1944, giorno fatidico dello Sbarco in Normandia, con l’espressione « D-Day », tradotta in francese con «jour J» [NdT].
  • 10. L’esercito britannico ha il sopravvento a El-Alamein sulle armate tedesche e italiane il 2 novembre 1942.
  • 11. I georgiani, che prestano servizio come ausiliari nell’esercito tedesco, formano il 795° battaglione della 709a divisione di fanteria. Tale battaglione si occupa della difesa di una delle spiagge di Sainte-Marie-du-Mont, situata a qualche chilometro di distanza da Neuville-au-Plain.
  • 12. Il nome «asparagi di Rommel» si deve alla popolazione locale che, mobilitata dalle autorità tedesche, è costretta a erigere pali sui terreni che possono essere utilizzati come piste di atterraggio dagli Alleati.
  • 13. Le batterie costiere situate nel comune di Saint-Martin-de-Varreville (quattro cannoni) subiranno molteplici attacchi alla vigilia dello Sbarco, nella notte tra il 5 e il 6 giugno 1944.
  • 14. Prima che le grandi operazioni militari in Normandia abbiano inizio, i tedeschi, consapevoli dell’importanza dell’ascolto della radio, specialmente della BBC da parte dei partigiani, ordinano che tutti gli apparecchi TSF (Telegrafia senza fili) siano portati in municipio. Così, dal marzo 1944, i civili si vedono costretti a consegnare i loro apparecchi radio.
  • 15. Il gruppo Francia libera si costituisce intorno al generale de Gaulle fin dal giugno 1940 e stabilisce la sua sede nevralgica a Londra. I membri del gruppo vogliono aiutare attivamente gli Alleati nei combattimenti. Si uniscono quindi a tali truppe in Africa, in Italia, poi in Normandia in occasione dello Sbarco.
  • 16. Espressione utilizzata dagli inglesi, dagli americani e dai tedeschi in riferimento alle operazioni militari del 6 giugno.
  • 17. Le aviotruppe americane 82ª e 101ª saranno paracadutate nei pressi di Sainte-Mère-Église, Saint-Côme-du-Mont e Picauville. 13.000 uomini sono così imbarcati in 832 apparecchi allo scopo di impadronirsi delle strade chiave (come la Route Nationale 13), di distruggere ponti, far saltare la ferrovia in direzione di Carentan e annientare alcune batterie costiere. Tutto questo per impedire ai rinforzi tedeschi di arrivare e impossessarsi delle aree di sbarco. Nel 1969 il dipartimento dei Bassi Pirenei cambia nome per diventare il dipartimento dei Pirenei Atlantici. La Francia metropolitana si divide in 95 dipartimenti. Ogni dipartimento costituisce un’unità amministrativa e territoriale dello Stato che è l’esatto equivalente della provincia italiana. La Bassa Normandia è per esempio suddivisa in tre dipartimenti, ciascuno con il suo capoluogo amministrativo: Saint-Lô nel dipartimento della Manche (dipartimento indicato col numero 50), Caen nel Calvados (14) e Alençon nell’Orne (61) [NdT].
  • 18. I lanci dei paracadutisti furono caratterizzati da grande imprecisione, in particolare a causa del cattivo tempo che imperversava sulla regione e a causa della prudenza dei piloti. Alcuni paracadutisti si ritrovarono a volte a una trentina di chilometri dalla zona di atterraggio prevista.
  • 19. Si tratta della Route Nationale n° 13 (RN 13), strada statale che collega Parigi a Cherbourg via Caen [NdT] .
  • 20. L ’appellativo dispregiativo «crucco», utilizzato dai soldati italiani durante la Seconda Guerra Mondiale per designare i tedeschi, in origine indicava gli slavi, poiché deriva dalla voce serbo-croata « kruh » che significa «pane». Tale termine è un possibile equivalente del francese «boche», qui impiegato dalla narratrice [NdT] . È difficile spiegare l’etimologia di «boche», sostantivo in uso a partire dalla seconda metà del XIX secolo. Possibile forma aferetica di «alboche», parola più antica preceduta dal prefisso «al-» per «allemand», tedesco. L’espressione francese «tête de boche», utilizzata nel gergo del XIX secolo, indica una persona dalla testa dura in riferimento alla palla di legno, la «boche» appunto, utilizzata nei giochi dei birilli. Ma potrebbe anche trattarsi del diminutivo di «caboche», termine colloquiale che indica la testa.
  • 21. Santa Teresa di Lisieux (Alençon, 1873 – Lisieux, 1897): suora carmelitana beatificata nel 1923 e proclamata santa nel 1925 da Papa Pio XI. Nel maggio 1944 viene anche proclamata patrona secondaria di Francia da papa Pio XII. In Normandia, sua terra natale, Santa Teresa è molto venerata dai fedeli.
  • 22. La penisola del Cotentin viene isolata il 18 giugno quando i paracadutisti arrivano sulla costa occidentale.
  • 23. Cherbourg sarà liberata soltanto il 26 giugno.
  • 24. Trascrizione inesatta dell’avverbio di affermazione tedesco «ja».
  • 25. «A quanti metri?»
  • 26. «Che cos’è?»
  • 27. In questa zona della Manche, il paesaggio rurale è quello tipico del «bocage» normanno in cui frutteti, campi e pascoli sono circondati da alte siepi o esili boschetti. Qui le stradine campestri sono spesso incassate. Tra la siepe e il sentiero incassato, troviamo un argine più o meno alto che scende nel fosso o direttamente sul ciglio della strada. Abbiamo quindi molti terrapieni e pochi muretti a secco. Dato poi il clima umido e temperato, tali argini sono sempre erbosi [NdT].
  • 28. Si tratta di «crêpes» salate fatte con farina di grano saraceno [NdT].
  • 29. Secondo l’Oxford English Dictionary, si tratta della sigla di G overnment (or G eneral) I ssue: nome generico attribuito ai soldati americani.
  • 30. Sulla strada di Cherbourg, Montebourg riveste un ruolo di primaria importanza nella lotta per l’accesso al Cotentin settentrionale. Numerosi bombardamenti colpiscono tale borgo, in particolare nei giorni 8, 10 e 12 giugno. Bombe al fosforo e granate della marina trasformano Montebourg in un braciere. Se alcuni abitanti si rifugiano nell’abbazia, molti altri escono dalle loro cantine per tentare la via della fuga.
  • 31. Tre bombardamenti il 6, 7 e 8 giugno annienteranno Valognes, la «piccola Versailles normanna». Le bellezze della città saranno ridotte in polvere. Si conteranno circa 300 morti.
  • 32. Nome in codice dato alla prima spiaggia dello sbarco verso ovest, Colleville-sur-mer.
  • 33. Gli americani prendono le alture di Cherbourg il 23 giugno. Due giorni più tardi, il 25, avranno luogo degli scontri in città. Il generale von Schlieben e l’ammiraglio Hennecke capitoleranno il 26, senza ordinare il cessate-il-fuoco generale alle loro truppe, trincerate. L’arsenale resisterà fino al giorno seguente.
  • 34. Acquavite tipica della Normandia, ottenuta dalla distillazione del sidro estratto da precise varietà di mele secondo metodi tradizionali tramandati da secoli [NdT].
  • 35. È molto difficile quantificare le brutalità commesse dalle truppe alleate sui normanni. Da una parte, tutte le vittime non hanno sporto denuncia e dall’altra casi giudiziari di questo tipo vengono a volte insabbiati. Le autorità del resto censiscono unicamente i casi sanzionati dai tribunali. Michel Boivin riporta nei suoi studi, relativi alla Manche e all’intero periodo della guerra, il numero di 208 stupri e di circa 30 omicidi, commessi da membri delle truppe americane ai danni della popolazione.
  • 36. Si aggiunge di solito una esse preceduta da apostrofo (s) per indicare il plurale di «GI» [NdT].
  • 37. È una regola di matematica. Secondo la definizione del Robert, si tratta di un «metodo che permette di trovare il quarto termine di una proporzione quando gli altri tre sono già noti».
Numero di catalogo:
  • Numéro: TE277
  • Lieu: Mémorial de Caen
X
Saisissez votre nom d'utilisateur pour Mémoires de guerre.
Saisissez le mot de passe correspondant à votre nom d'utilisateur.
Image CAPTCHA
Enter the characters shown in the image.
En cours de chargement